OMELIA 4a Domenica di Pasqua. Anno C

«27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola». (Gv 10, 27-30)

 

 

«Tuffarci in fondo all’abisso, sia Inferno o Cielo, che importa?

per trovare qualcosa di nuovo nel grembo dell’Ignoto» (C. Baudelaire, Il viaggio).

 

Trovare e vivere qualcosa di nuovo: pare essere questo l’imperativo dell’uomo di oggi.

Occorre fare sempre più nuove esperienze, avere l’ultima novità tecnologica, vivere una nuova relazione, sino alla necessità di avere nuove parti del corpo.

Novità come promessa di felicità; e per sentirsi nuovi, s’è disposti anche a tuffarsi all’inferno o nel Cielo: che importa?

 

La novità è sempre intesa come cambiamento radicale. Un voltare pagina, frantumare, sradicare, dissodare, eliminare ciò che è, perché qualcosa di nuovo possa rinascere.

Il Vangelo non insiste mai sulla necessità del cambiamento. La felicità è il prodotto dell’amore, e l’amore trasforma ciò che è, non lo cambia, non lo baratta.

L’ideologia del nuovo impone di cambiare ciò che si ha come si cambia un canale televisivo, mentre la «Felicità è amare ciò che si ha», diceva Agostino. E amare ciò che si ha significa ‘insistere’ su ciò che possiedo ora e su ciò che sono ora. Per questo, secondo Jacques Lacan, la parola più alta dell’amore è ‘ancora’.

Se il cambiamento impone di passare da un oggetto all’altro, per poi sperimentare a sera che è già troppo vecchio, l’amore reclama lo sforzo titanico dell’approfondire, di scendere in profondità, di dire ‘oggi guardo ancora il tuo volto, e anche se è sempre lo stesso, non mi stanco perché è profondo come l’infinito’.

Stiamo morendo di superficialità. Ci si stanca presto di tutto, confondendo vita con vitalità. Ci accontentiamo della spuma del mare, quando lo splendore è racchiuso negli abissi.

 

Gesù ha amato in questo senso. Non ha cambiato nulla ma trasformato tutto, cominciando con l’acqua in vino alle nozze di Cana, per finire con la morte. Non ha sostituito la morte, l’ha attraversata, l’ha vissuta trasformandola così in vita.

Dio utilizza, ama, ‘sta con’ il materiale umano che ha dinanzi, non pretende che cambi per poterlo amare, ma amandolo lo trasforma. E lo fa rivivere.

 

Le sue pecore, per le quali ha dato la vita, sono quelle di sempre: testarde, fragili, paurose, infatti lo tradiranno, lo rinnegheranno e l’abbandoneranno. Ma lui insiste, sta ancora con loro, non abbandona, non cerca qualcosa di nuovo, ma le farà nuove con un amore che è stato capace di dire: “anche se questo amore mi chiede di morire, ti amo ancora, perché so che è l’unico modo perché la vita possa affermarsi”. Per questo può dire: «Io do loro la vita eterna, e non andranno perdute in eterno» (v. 28).

 

Ecco cosa fa l’amore, rende eterno ciò che viene amato. L’amore sottrae dal potere della morte, dal disfacimento, dalla dimenticanza l’amato. Coloro che amiamo non li perderemo mai.

Gesù sta con i suoi, e ci starà anche quando questi non staranno più con lui. Ci starà anche quando la sua amicizia verrà tradita. E qui Gesù ci insegna una cosa grande, che l’avere fede non è tanto credere in Dio, quanto avere il coraggio di credere che Dio si fida di me.

L’amore è cosa strana, in quanto strano è il suo modo di comportarsi: più lo si vive, ovvero più lo si dona, più esso si moltiplica, più vita scaturisce, si diffonde in colui che ama, nell’amato e intorno agli amanti.

«Più ti do più ho», dice Giulietta a Romeo nell’opera di Shakespeare.