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  • OMELIA 5a Domenica Tempo Ordinario anno A

    «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
    14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

    Gesù dice ai suoi: «Voi siete il sale della terra» (v. 13) e «la luce del mondo» (v. 14).
    Lo dice immediatamente dopo aver pronunciato il brano delle beatitudini (vv. 3-12). L’uomo, riconosciutosi povero (v. 3) e incapace di darsi da solo la felicità, può dirsi – proprio grazie a questa sua insufficienza, questo suo vuoto esistenziale – felice, beato perché l’Amore finalmente l’ha raggiunto, come l’acqua può riempire un vaso vuoto, ed essere così trasformato in amore stesso.
    Beato te, amico mio – dice Gesù a ciascuno di noi – se nella tua povertà, nella tua insufficienza mi permetti di farti visita, e di trasformarti in me, io che sono la felicità, il senso, il sapore della vita, e la luce del mondo (cfr. Gv 8, 12).

    Per questo Gesù può dire ai suoi: siete sale e luce, perché l’Amore amando, trasforma l’amato in se stesso, nell’amore stesso.
    Siamo il sale della terra. Col sale il cibo acquista sapore, altrimenti ‘non sa di niente’, è insipido, scipito, insulso. Ecco cosa provoca l’essere nell’Amore, sapienti (la radice è la medesima), ovvero in grado di comprendere come giocarsi la vita, aver scoperto il segreto di una vita sensata, con gusto, compiuta. Se questo segreto rimane nascosto, si rischia di sprecare la vita fuori dall’amore, in sciocchezze (‘sciocco’ è il termine con cui si indica un cibo senza sale), nella stupidità e nella superficialità.

    Ma in cosa consiste, concretamente, essere sale della terra? Qual è questo segreto del vivere? La risposta ci viene fornita dalla prima lettura presentataci in questa domenica, tratta dal capitolo 58 di Isaia.
    Occorre recuperare però ancora un significato profondo riferito al sale. Questo prodotto veniva utilizzato come antisettico e antidolorifico, sottoforma d’impacchi, sulle ferite cutanee.
    Isaia mette in bocca a Dio queste parole: «se tu dividerai il pane con l’affamato, introdurrai in casa i miseri, i senza tetto, vestirai uno che vedi nudo, allora la tua ferita si rimarginerà presto» (v. 8).

    Guarire l’altro dallo stato di indegnità, toglierlo dal fango, guarirgli la ferita infertagli dalla violenza del mondo in cui è immerso, rimarginargli la ferita esistenziale, donandogli in questo modo vita in pienezza, ebbene, questo guarirà le ferite che ci portiamo dentro. Sì, perché siamo tutti guaritori feriti.
    Chi di noi non si porta dentro delle ferite esistenziali, magari inferteci dall’infanzia, da amori sbagliati, delusioni subite, male compiuto e ricevuto, sbagli con conseguenze laceranti. Tutti ci portiamo dentro questo essere feriti, con un dolore che ci dilania. Il Vangelo ci indica la strada affinché possiamo guarire.
    Il sale – l’amore – versato sulle ferite dell’altro, rimarginerà le nostre.
    Se non ridiamo gusto alla vita di un altro, perderemo il gusto per la nostra, e tutto sarà insipido, scialbo e triste.
    È vero, quando cominceremo a prenderci cura dell’altro, sperimenteremo che questo ci brucerà molto, a volte provocherà un dolore molto forte, proprio come il sale sul vivo di una ferita, sapendo al contempo che è anche l’unico modo per guarire.
    Gesù continua dicendo: «voi siete la luce del mondo» (v. 14). È interessante ricordare che, nella Chiesa primitiva, i battezzati venivano chiamati gli illuminati, e questo perché immersi, inzuppati di Cristo, la luce!

    Ma è ancora Isaia a ricordarci cosa vuol dire, concretamente, essere luce nel mondo.
    «Se toglierai di mezzo a te l'oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se offrirai il pane all'affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio» (vv. 9-10).
    Saremo luce – ovvero diventeremo ciò che già siamo in potenza – solo se illumineremo gli altri. Se non s’illumina nessuno, ci spegniamo anche noi. Perché il bene fatto all’altro alimenta la nostra lampada.
    Siamo stati illuminati solo per far uscire dal buio i fratelli.
    Il Vangelo ci ricorda continuamente che siamo chiamati a non incurvarci su di noi, sul nostro male, sulle nostre sconfitte, ma accorgendoci che fuori di noi, ma molto vicino a noi, c’è un mondo in attesa di essere illuminato, ascoltato, abbracciato; questo sarà il momento in cui cominceremo ad essere guariti noi, e a vivere nella luce!

    Una vita nell’oscurità dell’egoismo, giocata sotto il secchio (nel vangelo chiamato moggio) si spegnerà. Una vita sotto il secchio, nell’ombra, nel nascondimento del proprio vivere quieto, incentrato su di sé, alla fine si spegnerà nell’insignificanza.
    Gesù ha mostrato che la vita che illumina il mondo intero, è solo quella che ha amato sino alla fine, ovvero quella che ha saputo salire sul candelabro, ovvero la croce (v. 15). Siamo nati per amare di un amore crocifisso; una vita che è stata ‘accesa’, e che non ama sino alla fine (non viene posta sul candelabro/croce) è una vita spenta, morta anche se vivente: «non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro». La nostra vita o sarà presenza luminosa per qualcuno o non sarà nulla.

    La nostra vita acquista sapore, s’illumina, ha senso diventa bella quando vive sul monte (v. 14). Ora monte o montagna nel Vangelo richiama sempre al Golgota, il monte per eccellenza, là dove si è manifestata la luce di Cristo, luce che ha illuminato il mondo intero, la luce per eccellenza, il Cristo crocifisso.
    E una vita consumata sul monte, spesa nell’amore, dando gusto e illuminando gli altri, non ha bisogno di farsi notare, di farsi pubblicità, di far clamore, perché: «non può restare nascosta una città che sta sopra un monte» (v. 14). L’amore si manifesta di per sé, è fecondo, porta frutto, si espande in quanto amore, per definizione, per natura. Come un profumo, che non può non profumare il mondo circostante.
    Purché sia vero amore.

    A questo punto il mondo guarderà quella città posta sul monte, perché troppo evidente; rimarrà abbagliato dalla luce che incontrerà negli occhi della persona da cui ha ricevuto del bene, sentirà il sapore del bene, e renderà gloria al Padre che è nei cieli (v. 16).
    Cosa vuol dire rendere gloria al Padre? Cos’è la gloria del Padre? La gloria di un padre non può essere che la propria creatura, il proprio figlio.
    L’umanità, quando finalmente si sentirà amata, accolta, fatta oggetto di un’attenzione capace di risollevare dal fango e togliere dal male, allora comincerà a sua volta ad illuminare e ridare ‘gusto’ alle creature che gli stanno accanto, riconosciute finalmente come fratelli, che altro non sono che figli di Dio ovvero la gloria del Padre.