OMELIA 18a Domenica Tempo Ordinario. Anno C

«Uno della folla gli disse: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. 14Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. 15E disse loro: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”. 

16Poi disse loro una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio“». (Lc 12, 13-21)

 

 

«Vanità delle vanità: tutto è vanità».

Così inizia la prima lettura di oggi, tratta dal libro del Qoelet. Traducessimo letteralmente dall’ebraico, avremmo: «Vapore di vapore, tutto è vapore».

Tutto è, ma nulla rimane. Tutto è illusione, come fiato su un vetro.

La vera sapienza umana consisterebbe nel vivere ogni istante con questa consapevolezza.

Ma allora perché alzarsi al mattino, correre, affannarsi, costruire, edificare, amare, mettere al mondo figli, accumulare, fare guerre, invidiare…? Detto in altre parole, cos’è che rimane alla fine, ammesso che rimanga qualcosa?

Tutta la storia e la cultura degli uomini, in fondo, non è che cercare di trovare una risposta a questo perché. Che senso ha vivere, se tutto in un istante è destinato a scomparire come fumo disperso nell’aria?

 

Gli antichi asceti, vivevano con un teschio sul proprio tavolo di lavoro, perché rammentasse loro la brevità e l’inconsistenza della vita. L’uomo, per quanto potente, ricco e di successo, è destinato comunque, in un soffio, a diventare così: orbite vuote.

Il teschio degli antichi è oggi sostituito dai notiziari: memoria continua del nostro essere nulla su questa terra; così fragili, vulnerabili, soggetti inermi e indifesi dinanzi ad un evento che sia di origine naturale o di umana follia.

 

Credo che ciascuno di noi si porti dentro una domanda fondamentale. Esiste un modo di esistenza tale per cui il vivere non sia un consumare la vita, ma piuttosto un’ ‘edificarla’, un costruirla sino a farla diventare più forte della morte? Esiste una possibilità di vivere, per cui non si abbia più la sensazione di stare dirigendosi verso il  nulla, bensì verso un compimento, una edificazione di sé, una meta?

 

Gesù di Nazareth ha offerto la sua risposta, raccontando la bella parabola del Vangelo di oggi.

Egli ci ricorda che esistere non vuol dire ancora vivere. L’esistenza si mantiene con il riposo, il mangiare, il bere, la riproduzione e il divertimento. Per vivere veramente occorre altro.

La sua stessa vita testimonia solo una cosa, che l’unico modo per non perderla è donarla.

«La sua morte non è l’esaltazione del nulla, della vanità, ma è la negazione della vanità perché abbiamo capito, una volta per sempre, che si può anche morire non morendo. Chi muore perché c’è qualcosa di più grande della dialettica vita-morte – cioè l’amore – costui non muore» (E. Balducci).

 

 

Certo, perché il verbo amare si declina solo in donare: «Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio» (Gv 3, 16); «Non c’è amore più grande che dare la propria vita» (Gv 15, 13).

 

Il Vangelo racchiude in sé il segreto dell’umano vivere: esiste un modo di consumare i giorni, tale da sperimentare già in vita una modalità risorta. Esiste un modo di vivere tale da percepire la vita come una metamorfosi continua, per cui da una parte si sente il proprio corpo come un lento disfarsi, ma dall’altra si ha la forte consapevolezza che la vita vera si sta rinnovando in sé in ogni istante, come un crescendo verso una pienezza e un compimento. È ciò che Paolo intuì scrivendo ai corinzi: «non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4, 16).

 

Il Vangelo è lì a ricordarci, in ogni istante del quotidiano, che inizia a vivere solo chi ha intrapreso il lento morire nell’amore, e muore lentamente invece chi ricerca vita solo per sé.

«Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?» (Lc 9, 24s.).

 

Poco prima della sua morte, il grande scrittore russo Lev Tolstoj ebbe a dire: «Ho conosciuto che ogni uomo è vivo non per la cura che egli può avere di sé, ma perché è l’amore che lo fa vivere. Ho ca­pito adesso che agli uomini sembra di poter vivere per tutte le cure che hanno di sé, ma in realtà sono vivi soltanto perché è l’amore che li fa vivere. Chi è nell’amore è in Dio e Dio è in lui, perché Dio è amore».

 

E Antoine de Saint-Exupéry, in Cittadella ricorda che «Vivono solo coloro che non hanno trovato la pace nelle provviste fatte».