OMELIA 13a Domenica Tempo Ordinario. Anno B

«Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello.28Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi ha toccato le mie vesti?”. 31I suoi discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”. 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, soltanto abbi fede!”. 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: “Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”.40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico: àlzati!”. 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare». (Mc 5, 21-43)

 

Due donne.

Due vite inutili, sciupate, usate e forse abusate. Due donne morte.

Due simboli e metafore d’esistenza.

La prima ha dodici anni (v. 42b), età da marito al tempo di Gesù; pronta dunque ad affrontare la vita, ad essere feconda, sbocciare alla pienezza di sé. Invece, dice il testo, vive ancora nella casa del padre, un pezzo grosso, ‘capo della sinagoga’ (v. 22), Giàiro, nome che significa ‘Dio risveglierà’. Viene presentata come la bambina (figlioletta, v. 23) di suo padre, ma soprattutto come sua proprietà: ‘la mia figlioletta…’ (v. 23).

Questa giovane donna è malata, anzi malata da morire. Perché non avere un nome proprio, ma essere riconosciuta solo dal ruolo ricoperto (in questo caso essere figlia del ‘capo’), sperimentarsi semplice proprietà di qualcun altro e quindi non appartenersi, fa morire. Quante vite morte perché percepitesi semplici proprietà altrui?

Non giungere alla propria verità, ossia non scoprirsi per ciò che si è veramente, in quanto tesi sempre a corrispondere alle attese e ai sogni altrui, non venire mai alla pienezza di sé perché si trascorre la vita a far contenti i genitori, i superiori, il proprio partner e a corrispondere a dettami religiosi, rende la vita morta.

Questa giovane sente il peso insopportabile di dover corrispondere a qualcosa e a qualcuno, di vivere di prestazioni, di essere sempre all’altezza, salvaguardare l’etichetta, realizzare sogni e desideri che non le appartengono, con il risultato di morire dentro. L’amore non va conquistato e tantomeno meritato.

Si è disposti a buttarsi via pur di ricevere un po’ d’affetto e vivere l’illusione di essere a posto.

Rischiamo di non venire mai alla luce di noi stessi perché troppo intenti a vivere vite che non ci appartengono.

Ci sono vite che si consumano dentro matrimoni falliti da tempo perché ‘sta scritto’ che non è bene separarsi, donne e uomini che si annientano in lavori che non hanno scelto perché all’origine ci sono iter di studi compiuti solo per compiacere i genitori, anime pie che si dissolvono in conventi perché se abbandonassero chissà cosa potrebbe dire la gente…

Vite addormentate, vite non vissute, vite sciupate.

È questo il grande peccato da cui Gesù è venuto a liberarci! Perché l’unico desiderio di Dio è che la sua creatura ‘abbia la vita e l’abbia in abbondanza’ (cfr. Gv 10, 10). L’unica vocazione è venire alla luce di sé, svegliarsi alla pienezza, permettersi di essere felici.

L’unico peccato mortale è il non vivere!

Gesù entra nella stanza di questa giovane donna che tutti considerano ‘morta’, e che invece per lui è solo addormentata (v. 39). E vi entra col padre e la madre, cause prime della vita morta della figlia. Entra in quella stanza che tutti hanno trasformato in camera mortuaria, mentre per Gesù è una splendida stanza nuziale. Infatti vi entra come sposo, l’Amore che prende per mano la sua sposa, e svegliandola le dice: alzati, prendi in mano la tua vita, fanne un capolavoro di fecondità. Vivi in pienezza, non pagare più il prezzo ad altri della tua felicità. Sii donna, sii te stessa.

 

L’uomo è fatto solo per sentirsi amato e per amare. Abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci permetta di essere noi stessi, veri, qualcuno che ci gridi – come Gesù all’amico Lazzaro (cfr. Gv 11, 43) – “Vieni fuori, vieni alla luce, rinasci!”.

L’amore apre alla libertà, alla vita. Gesù tocca la donna e questa risuscita alla vita, diventa donna, se stessa, vera.

Gesù è solo l’amore di Dio atto a rialzare l’uomo alla sua piena felicità, non un manuale di istruzioni.  È venuto perché ciascuno possa giungere alla propria e solo propria verità!

Tutte le altre ‘verità’, gridate e imposte, fanno ammalare e alla fine morire.

Finalmente questa donna, addormentatasi perché considerata una bambina, ora si sveglia donna. E le si ordina di darle da mangiare (v. 43). Una lettura psicanalitica del testo vede in questa giovane un’anoressica: desiderio malato di lasciarsi morire per affermare la morte del genitore che l’ha portata a vivere una vita morta.

 

L’Amore si accosta alla vita laddove questa si sta disseccando, dissanguando.

È quanto raccontato nell’altro episodio del Vangelo di oggi. Una donna che da dodici anni ha perdite di sangue. Per il semita il sangue è la sede della vita. Questa donna perde vita e in quanto tale è una sorta di paria della società. Il suo sangue la rende impura, e rende impuro tutto ciò con cui viene in contatto. Per questo è estromessa dal consorzio umano; deve vivere lontana, come una lebbrosa e quindi come morta.

Ecco un’altra morta vivente. Una vita estromessa perché ritenuta sporca, panno immondo, impura.

Lo sbaglio fatto, la colpa commessa, il peccato compiuto produce proprio questo. Il male allontana, da noi stessi e dagli altri. Ci estromette dal consesso dei ‘giusti’, dei ‘puri’, dalle relazioni, e pian piano si sente la vita morire, rinsecchirsi perché noi viviamo solo dell’accoglienza dell’altro, della relazione con l’altro.

Ebbene, Gesù si lascia toccare da questa donna impura, entra in relazione con questa paria della società.

La donna tocca l’uomo Gesù perché ha compreso che finalmente è apparso un Amore che non divide più gli uomini in puri e impuri, santi e peccatori, meritevoli e colpevoli, buoni e cattivi, ma per il quale esistono solo uomini e donne che vanno avanti come riescono, che fanno ciò che possono, in un estremo bisogno di essere riconosciuti  per ciò che sono e di essere amati in quanto tali. Per il quale esistono solo uomini e donne amati in quanto figli, e non per il loro comportamento morale.

La donna tocca l’uomo Gesù e viene guarita, e finalmente comprende – questo è il fine ultimo del Vangelo – che esiste un Amore che se riconosciuto, accolto, accettato, ridona vita alle vite morte, misericordia alla miseria più profonda, perdono ai peccatori più ostinati, fecondità alle storie più sterili, felicità e libertà alle vite dissanguate e tristi.