OMELIA 25a Domenica Tempo Ordinario. Anno B

«Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. 33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37”Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”». (Mc 9, 30-37)

 

 

Senza essere psicologi, si può facilmente intuire che colui che nella propria vita vuol essere il ‘più grande’, è perché in realtà si reputa molto piccolo e insignificante. Ciascuno compensa come può.

Chi nutre deliri di onnipotenza è perché in realtà non si sente nessuno e ha un continuo bisogno di affermarsi.

L’uomo può rischiare di passare una vita a dimostrare a tutti quanto vale, quanto sia importante e indispensabile, rivelando in realtà soltanto il vuoto che lo abita.

 

Ora Gesù sa che l’uomo ha come sua vocazione ultima quella di diventare grande e grande quanto Dio stesso! Il problema è che da sempre ha sbagliato la modalità per diventarlo. Eva è stata la prima creatura a sperimentare questo errore esistenziale: ha voluto giungere al compimento di sé impossessandosi di qualcosa di esterno a lei, strappando il ‘frutto’, per poi fagocitarlo. Ecco, noi ‘esuli figli di Eva’ intentiamo la medesima strategia. Vorremmo compierci, diventare grandi nella logica dell’accumulo: prendendo, assommando, fagocitando cose, oggetti, persone, affetti e corpi. Dal momento in cui abbiamo confuso l’essere con l’avere, abbiamo finito col credere che più abbiamo più siamo.

Eva che sperò di vivere in pienezza impossessandosi di un dono, cominciò a vivere una vita morta.

La via della grandezza indicataci da Dio passa dalla logica della relazione con l’altro e del dono. Gesù non cessa di ripetere nel Vangelo che una vita in pienezza si vivrà solo nell’atteggiamento del servizio, attraverso il prendersi cura dell’altro. Solo chi serve è grande. La storia ci ricorda che i grandi uomini son sempre quelli che hanno messo a servizio dell’umanità se stessi, la loro intelligenza, la loro forza, i loro beni e il loro amore. Poi la storia ricorda anche i potenti, ma questo è un altro discorso.

Una comunità umana crescerà, giungerà alla pienezza solo nella misura in cui farà propria la logica dei cuori grandi dei grandi uomini, ossia di coloro che si son fatti così piccoli da mettersi a servizio degli ultimi.

 

Gesù nel brano di oggi pone ‘in mezzo’ un bambino, ossia – al tempo di Gesù – ciò che agli occhi degli uomini non contava assolutamente nulla. Ebbene, ora l’accoglienza di un bambino ovvero dell’ultimo elemento della società diventa la discriminante per il proprio rapporto e comunione con Dio, per una vita riuscita, per vivere la grandezza massima.

La costruzione della propria umanità, la propria umanizzazione passa necessariamente dalla capacità di umanizzare chi ci sta accanto, le persone che in ogni attimo ci stanno intorno, a partire dai più fragili.

La strada più breve per arrivare a Dio passerà sempre dunque dal fratello; mettersi nelle mani di Dio significa porsi nelle mani dell’altro, perché mettersi nelle mani degli altri si chiama amore, mettere gli altri nelle proprie mani è chiamato potere.

Il dramma è che a volte pensiamo di essere potenti perché abbiamo qualcuno nelle nostre mani, alle nostre dipendenze, vincolati ai nostri legami. Saranno sempre gli altri a salvarci o dannarci, secondo la relazione che intessiamo con loro.

 

Ma occorre stare attenti, qui si parla di accoglienza, non di elemosine. Vivere da fratelli non è tanto fare delle cose per l’altro, ma accogliere l’altro, tout court, così com’è, nella sua oggettività. E accogliere l’altro il più delle volte significa non far nulla per l’altro. I poveri, i reietti, gli emarginati, hanno più bisogno di essere accolti che avere una mano riempita da qualcosa.

In fondo noi tutti abbiamo più bisogno di un cuore che ci accolga così come siamo, nella nostra più profonda verità, che di qualcuno che ci dimostri il suo bene facendo qualcosa e donandoci i suoi beni.