OMELIA 2a Domenica Tempo Ordinario. Anno C

«Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno vino”. 4E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora”. 5Sua madre disse ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le anfore”; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: “Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto”. Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: “Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora”. 11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». (Gv 2, 1-11)

 

«Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea…» (v. 1).

E noi siamo gli sposi e gli invitati. La festa di nozze è stata allestita per noi. Siamo tutti chiamati alla felicità piena, al compimento dell’essere, alla nostra più profonda realizzazione.

Siamo venuti alla luce come invitati a una festa nuziale. Siamo nati per vivere da risorti: questo matrimonio si celebra infatti il ‘terzo giorno’ (v. 1).

 

Ma poi il vino viene a mancare. L’amore, che è ciò che rende una vita degna di essere vissuta, viene a mancare. Per motivi a volte oscuri e misteriosi, ci s’inaridisce nella capacità di amare. E tutto piomba nell’indistinto, nel non-senso, nell’assurdo. Muore l’amore, fiorisce la violenza.

La gioia si trasforma in tristezza, i rapporti saltano, gli amori finiscono, gli ideali si dissolvono e tutto diventa grigio, monotono, solito.

Ci si sente svuotati, come anfore di pietra vuote, non ci si attende più nulla, si tira avanti, come si può… Sino alla prossima illusione.

Ma ci raggiunge una voce. Dolce e materna: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (v. 5). Nel Vangelo di Giovanni prime e ultime parole di Maria; nell’incipit del Vangelo, già un testamento spirituale. Basterebbero queste cinque scarne parole, splendenti come diamanti incastonati in un Vangelo tessuto di misericordia, per far impallidire gli sproloqui che si sarebbero moltiplicati in giro per il mondo sottoforme d’improbabili apparizioni …

 

E cosa avrà da dirmi quel suo figlio, di così necessario alla mia felicità? «Riempite d’acqua le anfore» (v. 7). Tutto qui?

Sì, tutto qui ma è quanto basta perché il miracolo si possa compiere.

Per la mia felicità, perché la festa possa rinnovarsi nella mia vita, perché l’amore possa tornare a scorrere nelle mie vene e fare di questa mia vita una festa, mi viene chiesto semplicemente di vivere e in pienezza. Di riempire di vita la mia esistenza attuale, che sia di pietra, fredda come un cadavere e vuota come un sepolcro, sbagliata come una cosa morta e infangata come straccio di strada; riempirla sino all’orlo, sino a farla tracimare. Non importa che questa mia vita sia grande come una botte o minuscola come un ditale. Ognuno ha la vita che ha (e non che si merita), l’importante è viverla, non lasciando nulla – come prezzo da pagare – a chicchessia e tanto meno a sterili quanto inutili sensi di colpa.

Riempi di vita la tua storia da divorziato risposato, vivi sino all’orlo tu donna ferita da un aborto, tu carcerato che hai ucciso e derubato. Vivi in pienezza tu definito ‘irregolare’, per le tue relazioni o per i tuoi sbagli passati.

Dio chiede solo questo: di riempire la propria esistenza, della cosa più semplice e banale che ci sia: acqua, ovvero della vita quotidiana, fatta di cose semplici e talvolta di una banalità impressionante. E di presentarla a lui, perché la possa trasformare in qualcosa di grande, di prezioso, capace di resistere anche all’impatto con la morte: in vino, ovvero in materiale amato. A Cana si celebra l’unione tra la nostra povertà abissale e la sua ricchezza infinita. Tra il nostro peccato e la sua misericordia. Tra il nostro nulla e il suo abbraccio vivificante. Il vino che dà gioia, che fa festa, che inebria, è scaturito dall’incontro tra la nostra storia ferita e il suo amore misericordioso. Come l’arcobaleno, segno di alleanza e di pace, scaturisce dall’incontro del sole e minuscole gocce di acqua residuo di una tempesta, tra un amore splendente e infinite lacrime amare.

Dio non cambia la nostra vita, ma la trasforma. È l’acqua ad essere trasformata in vino. Dio ha bisogno di qualcosa di già dato, di precedente per poter compiere la sua opera, per questo utilizzerà la mia umanità, per me immonda ma per lui preziosissima, tanto da essere oggetto di miracolo appunto.

 

Che ogni giorno sia per noi una Cana di Galilea, dove costatare che le nostre esistenze, a volte fredde, dure e screpolate, sono fatte oggetto di premura e di trasformazione da parte di quel Dio che ama la festa e il vino, e che fa delle nostre tristi giornate una ‘corte dei miracoli’, nella certezza che le nozze, con cui ci ha unito a lui, non avranno mai più fine.