OMELIA 5a Domenica di Pasqua. Anno C

«E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. 2E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. 3Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:

“Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
4E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate”.

5E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”». (Ap 21, 1-5a)

 

 

«Vidi un cielo nuovo e una terra  nuova. Vidi la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio…» (Ap 21, 1-2). Al termine dell’Apocalisse (seconda Lettura), Giovanni contempla ciò che sta alla fine, l’orizzonte, il punto ultimo dell’umana avventura: un cielo nuovo e una terra nuova, la città santa, letteralmente: la città ‘altra’, diversa, che sta ‘oltre’ al dato oggettuale.

Giovanni nutre questa speranza, che la storia, la nostra personalissima storia conoscerà un incontro, e non il nulla; che noi stiamo procedendo verso un fine che ha un nome e non verso la fine. Verso la piena costruzione di sé e non verso l’autodistruzione.

Giovanni nutre la ferma speranza insomma che vi sarà un luogo, uno spazio e un tempo ‘altro’ ove verrà asciugata ogni lacrima dagli occhi che hanno pianto e dove non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno (v. 4).

 

Tutto questo accadrà. Giovanni ci crede, perché ha conosciuto, ha fatto esperienza dell’Amore, lui ‘il discepolo amato da Gesù’.

L’amore non può tradire.

Questo è pure il nostro orizzonte. Di noi che camminiamo ancora in città infernali e i nostri occhi sono ancora bagnati di lacrime; di noi che viviamo mondi dove la morte falcia vite ancora nel pieno della loro forza, e dove il non senso tarla menti e cuori. Ma dinanzi a noi c’è questo orizzonte, come uno sfondo d’oro, dove s’adagia il quotidiano vivere per quanto scuro e macchiato. Come lo sfondo di un quadro di Simone Martini, come il cielo delle icone bizantine, dove tutto viene trasfigurato come promessa di eternità.

Dinanzi a noi già risplendono le luci dell’alba (cfr. Lc 23, 54), ma non ancora il sole. Sì, viviamo come in un’alba, dove la luce è già vittoria sulla tenebra, malgrado il sole non sia ancora comparso.

Sì, deve accadere tutto ciò, perché se è vero che Dio è l’amore, allora dovrà dimostrarlo proprio alla fine.

E noi lo attenderemo lì, puntuali, al varco, quando il sipario scenderà su questo immenso palcoscenico che è stata la storia degli uomini. E allora gli chiederemo conto, di tutto, perché per il momento, se è vero che lui è l’amore, è anche vero che i conti non tornano affatto.

«Infatti si muore. Siamo suoi figli e si muore: e questo non è giusto. Che l’Amore sia sconfitta e il potere viceversa, non è giusto. Ha degli obblighi il Signore. Ecco, gli ultimi tempi sono quelli in cui Dio si sdebita, Dio è finalmente se stesso. Perché finché c’è la morte  Egli non è se stesso; finché ciò che vale è distrutto, Dio è in debito con noi. Ci sono in noi grida innocenti, vorrei dire persino bestemmie innocenti, che esprimono la protesta della creatura che, amando le cose buone, non tollera che siano distrutte, visto che c’è un Padre che è nei cieli e conta i capelli del nostro capo. L’incontro finale è anche il momento in cui Dio rende ragione di Sé a noi: sennò, non è vero che si chiama Amore. La parola Amore sarebbe una maschera della sua tirannide. Ma quando asciugherà le lacrime dai nostri occhi, Egli ci renderà conto di ciò che non abbiamo capito e delle ingiustizie che abbiamo subìto» (Ernesto Balducci).