OMELIA 5a Domenica Tempo Ordinario. Anno C

«1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono
». (Lc 5, 1-11)

 

 

«Quest’è l’ora in cui nulla

può accadere. […]

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno

in cui nulla accadrà.  Non c’è cosa più amara

che l’inutilità».

Così canta Cesare Pavese in una sua poesia.

La vita può conoscere il fallimento, parola il cui etimo si rifà a ‘cadere’, ‘ingannarsi’. Condizione solita degli uomini di sempre. Un giorno, all’alba, ti accorgi di aver fallito la vita, di aver sbagliato tutto, di esserti ingannato su un amore, su una relazione, e ti trovi a precipitare in un abisso oscuro, che certuni chiamano peccato.

È la situazione significata nel brano appena letto. Una notte trascorsa in mare in cerca di vita, scoprirsi poi all’alba con le mani vuote e non poter far nulla se non riassettare le reti vuote sulla barca insabbiata a terra.

Il testo dice che Gesù «vide due barche accostate alla sponda» (v. 2). Gesù ‘vede’ la condizione dell’umano soffrire, e vi entra dentro: «salì su una barca» (v. 3). Dio dinanzi al mio fallimento, alla mia aridità, al mio male non rimprovera, non giudica, non impone nulla, ma vi entra dentro, com-patisce, partecipa. E poi mi invita a salpare nuovamente, a ritentare il rischio dell’amore, a non darmi per vinto, dicendomi: prendi il largo!

Dio sposa le conseguenze del mio male, mi apre continuamente alla possibilità di una vita ‘altra’, feconda. Per lui – e con lui – la notte infruttuosa, arida, maligna è lasciata alle spalle. Il male non può inficiare il futuro, per questo mi invita a non stare ai bordi dell’esistenza a contemplare la vastità del mare struggendomi con sensi di colpa e recriminando sul male commesso. E mi dice: Prendi il largo! Tu sei fatto per altezze vertiginose, vai! Quante volte nel Vangelo dopo aver incontrato donne e uomini inchiodati a terra per aver sperimentato un fallimento, lui li rialza congedandoli con questa parola: vai! La vita sta dinanzi, non alle spalle.

Il nostro Dio è un indice teso verso orizzonti vastissimi, invito alla fecondità, a favore di una vita capace di una pesca eccezionale.

C’è da notare che questo invito a salpare, viene rivolto quando le condizioni non sono ottimali. Gesù infatti chiede di prendere il largo, di mattina, nel momento meno opportuno per sperare in una pesca fruttuosa, perché è di notte che si esce a pescare. Ma lui è fatto così; con lui nella nostra fragile barca, che è la nostra esistenza, siamo chiamati all’impossibile, a sperimentare ed arrischiare l’impensabile.

 

Ma quanto è difficile credere a tutto questo, ad un amore così. Non lo crede neppure Pietro che grida: «Signore allontanati da me, perché sono un peccatore» (v. 8). Ci portiamo dentro questa idea tremenda, che il nostro essere segnati dal male, dal fallimento, dal limite e dalla fragilità, ci ponga di fatto lontani da Dio; crediamo che il suo amore non possa avere nulla a che fare con la nostra condizione di povertà. Come Pietro pensiamo che solo qualora fossimo irreprensibili e puri, Dio potrebbe farsi accanto.

E invece no. Il Vangelo afferma proprio il contrario. Gesù dice a Pietro e a me: «Non temere» (v. 10), la tua barca – la tua storia – va bene così com’è, per questo posso salirci sopra (cfr. v. 3). La tua miseria è calamita alla mia misericordia, la tua tenebra è possibilità alla mia luce di risplendervi. Le tue mani vuote condizione perché io le possa riempire.

«D’ora in poi…» (v. 10). Per Dio esiste solo il mio presente, possibilità di un futuro migliore. In ogni istante della mia storia egli pronuncia su me questa parola: «d’ora in poi…». L’amore “mi fa ripartire da là dove mi ero fermato” (Ronchi).

E la vita conoscerà così un’altra fecondità, occasione di relazioni nuove, amori capaci di riscattare una vita, possibilità di recuperare fratelli e sorelle dall’abisso del male riportandoli a riva facendoli tornare a respirare. Questo vuol dire “d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (v. 11).

 

La cosa che vale è che Tu ci conosci

come noi non ci conosciamo:

Tu, luce della nostra coscienza.

Anche di amarti a noi è negato

se Tu non semini in noi l’amore,

sola fine della tua e nostra solitudine” (Turoldo)