OMELIA XX domenica del Tempo Ordinario. Anno C

Ger 38, 4-6.8-10

Eb 12, 1-4

Lc 12, 49-53

«C’era un uomo, che aveva inventato l’arte di accendere il fuoco. Prese i suoi attrezzi e si recò presso una tribù del nord, dove faceva molto freddo. Insegnò a quella gente ad accendere il fuoco. La tribù era molto interessata. L’uomo mostrò loro gli usi per i quali potevano sfruttare il fuoco – cuocere il cibo, tenersi caldi, ecc. .

Quelle persone erano molto grate all’uomo per quanto era stato loro insegnato sull’arte del fuoco, ma prima che potessero esprimergli la propria gratitudine, egli scomparve. Non gli importava ricevere il loro riconoscimento o la loro gratitudine: gli importava il loro benessere. Si recò in un’altra tribù, dove nuovamente iniziò a dimostrare il valore della sua invenzione. Anche quelle persone erano interessate, un po’ troppo però per i gusti dei loro sacerdoti, che iniziarono a notare che quell’uomo attirava la gente, mentre essi stavano perdendo popolarità. Così, decisero di liberarsene. Lo avvelenarono – o lo crocifissero, non ricordo più. Ora, però temevano che la gente si rivoltasse contro di loro, e così fecero una cosa molto saggia, persino astuta. Fecero eseguire un ritratto dell’uomo e lo montarono sull’altare principale del tempio. Gli strumenti per accendere il fuoco furono sistemati davanti al ritratto, e la gente fu invitata a venerare il ritratto e gli strumenti del fuoco, cosa che fece ubbidientemente per secoli.

L’adorazione e il culto continuarono, ma non fu mai usato il fuoco». (Anthony de Mello)

 «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49)

Il fuoco. Non quello che consuma e distrugge, ma quello che scalda, trasfigura, illumina. Il fuoco che è passione dell’anima e compassione per ogni essere; il fuoco che purifica le illusioni e dischiude l’essenziale. Gesù lo porta con sé. Lo getta sulla terra. Lo sogna già acceso. Eppure, sembra che duemila anni non siano bastati per vederne davvero la fiamma divampare.

Non è forse vero che, troppo spesso, ci siamo accontentati delle braci spente di un culto spento, mentre la vera brace — quella del Vangelo — attendeva di ardere nel cuore dell’umano?
Il fuoco delle Beatitudini, della vita povera, disarmata, libera dal bisogno di possesso e di potere, è stato soffocato da cenere di convenzioni, da riti senza più scintilla, da parole svuotate del loro incendio originario.

Eppure, come ci ricorda Anthony de Mello, il problema non è nella Tradizione, ma nel modo in cui la trattiamo. Tradizione infatti “Non il culto delle ceneri, ma la custodia del fuoco” (Gustav Mahler).

Il racconto del maestro del fuoco parla a noi. Parla alla Chiesa, alla spiritualità, a ogni ricerca umana. Quante volte abbiamo venerato il volto dell’uomo che portava il fuoco, senza più usare gli strumenti che ci aveva lasciato! Quante volte abbiamo eretto altari e codificato liturgie, dimenticando che il fuoco era destinato a essere acceso — non adorato.

Il dramma è tutto lì: la fiamma è stata trasformata in icona, e la Parola in dogma. Ma la Parola è fuoco vivo, non pietra scolpita. È urgenza, non istituzione.

Questo fuoco non si può rinchiudere nei recinti del potere o nelle stanze del consenso.
È fuoco che divampa dove trova un cuore disponibile, un’anima sveglia, una mano tesa.
È il fuoco del samaritano che si china, del pane spezzato, dell’ultimo posto scelto liberamente. È il fuoco che illumina i poveri in spirito e che svergogna ogni falsa sicurezza.

Allora, oggi più che mai, questa parola ci brucia dentro:
“Quanto vorrei che fosse già acceso!”. La domanda che ci resta è semplice e radicale: Lo accenderò io questo fuoco? O continuerò a venerarne le ceneri?