Lc 14, 25-33
Trasformarsi da servi a discepoli, da marionette mosse da fili invisibili a esseri umani liberi, richiede un atto radicale: imparare a “odiare” ogni potere che tenta di soffocare il nostro vero Sé. Non si tratta di odio distruttivo, ma di un distacco, di una disidentificazione da ciò che pretende di definire la nostra identità.
È necessario sciogliere i legami con tutto ciò che appartiene alla dimensione storica: nascita e morte, successi e fallimenti, inizi e conclusioni. Solo così, liberandoci dalle identificazioni che ci imprigionano, potremo conoscere ciò che sta al fondamento del nostro essere: la realtà suprema, il nostro Sé più vero.
Il grande maestro Thich Nhat Hanh ci offre un’immagine luminosa:
«Sulla superficie dell’oceano ci sono molte onde, alcune alte, altre basse, alcune belle, altre meno. Tutte hanno un inizio e una fine. Ma quando entrate in profondo contatto con le onde, realizzate che le onde sono fatte soltanto d’acqua, e dal punto di vista dell’acqua non ci sono inizio e fine, alti e bassi, nascita e morte».
Noi siamo onde, ma ci illudiamo di essere soltanto questo: la forma fragile, la cresta che appare e scompare. Dimentichiamo d’essere acqua, la sostanza che costituisce l’onda. Ci attacchiamo alla superficie, investiamo energie e speranze in ciò che è destinato a dissolversi. E così smarriamo il contatto con la nostra realtà profonda: l’acqua infinita, senza principio né fine, che non conosce nascita né morte.
Gesù stesso invita a questa liberazione. Chiede di rompere con ogni illusione che scambia per vita ciò che è solo apparenza, anche quando si tratta di realtà preziose come gli affetti più cari — padre, madre, figli, fratelli, sorelle — e persino la nostra stessa vita biologica. Perché in verità esistono due vite:
• la vita che conosciamo, fragile e consumata dal tempo, nutrita di ciò che nasce e muore;
• e la Vita che ci attraversa, senza inizio e senza fine, che ci unisce al Tutto e ci fa partecipi dell’Uno.
Non siamo chiamati a trattenere l’onda, ma a riconoscerci acqua. Non a difendere ciò che passa, ma ad abitare ciò che resta.
Ogni distacco che ci è chiesto – dagli affetti, dai ruoli, persino dal nostro stesso volto – non è perdita, ma iniziazione: un varco verso l’essenza.
In fondo la vita autentica non si misura nei battiti del tempo, ma nell’intensità con cui partecipiamo all’Infinito che ci attraversa. Lì, dove non c’è nascita né morte, non c’è servo né padrone, ma solo il silenzioso splendore del Sé che è Uno con tutto.
Riconoscerlo è il vero atto di libertà. È allora che cessiamo di essere marionette e diventiamo esseri umani: non più prigionieri della superficie, ma trasparenti all’abisso da cui veniamo e verso cui siamo continuamente richiamati.