Lc 16, 19-31
«Si hanno due vite. La seconda comincia il giorno in cui ci si rende conto che non se ne ha che una» (Confucio).
La vita ci è data ora. Non domani e non altrove. Ed è qui che possiamo trasformarla in paradiso o in inferno. Dipende solo da noi. Infatti, paradiso e inferno non sono luoghi futuri, ma modi di abitare il presente, la storia e le relazioni.
La parabola evangelica di oggi, detta del ‘ricco epulone’, ce lo ricorda con forza. Questo personaggio è descritto come ricco e solo, talmente solo da non avere neppure un nome. Solo in seguito verrà chiamato “epulone”, ma non è un nome proprio: è la definizione di ciò che possiede e ostenta, non di chi egli è. Mangia, veste, gode… ma resta anonimo, sconosciuto persino a sé stesso. Come a dire che son le cose a definirlo.
Lazzaro invece ha un nome proprio di persona. Certo, è povero, mendicante, piagato, eppure ha un nome e con questo nome è ‘chiamato’. Accanto a lui compaiono persino dei cani, che gli lambiscono le ferite: più compassionevoli degli uomini, custodi silenziosi di un briciolo di paradiso.
Il ricco, oltre a non possedere un nome, ad essere anonimo è anche cieco. Non vede infatti chi giace alla sua porta. Ha occhi solo per “la sua roba”, direbbe Verga. E proprio la sua roba l’ha ingannato, convincendolo che fosse l’assoluto, il tutto per cui meritasse giocarsi la vita. Ma alla sua porta c’è sempre stato un altro “assoluto”: un altro sé, che chiede solo d’essere visto, accolto, e sfamato.
La roba acceca, ottunde il cuore ci suggerisce oggi il maestro di Nazareth. Ci illude che la vita sia solo ciò che si consuma, ciò che si difende coi denti. E così ingrassiamo i nostri idoli, coccoliamo illusioni, custodiamo inganni. Ma a ben vedere, di vite ne abbiamo due. La seconda è quella che scartiamo, che resta affamata e ferita ai margini, e chiede solo di essere riconosciuta. È il nostro vero Sé, la matrice da cui siamo generati. Ciò che verrebbe alla luce se l’ego si dissolvesse. È il divino che palpita dentro la nostra fragile carne.
Oggi siamo chiamati a prenderci cura anzitutto di quel povero Lazzaro che abita in noi, sorgente interiore dimenticata. Non domani. Domani sarebbe già troppo tardi. Oggi va nutrito l’essere spirituale, lasciato morire di fame mentre ci preoccupavamo solo della “roba” che passa.
C.G. Jung nel Libro rosso scrive parole che ci trafiggono:
«Per quale ragione il mio Sé è un deserto? Ho forse vissuto troppo al di fuori di me, nelle persone e nelle cose? Perché ho evitato il mio Sé? Non ero forse caro a me stesso? Eppure ho evitato il luogo della mia anima. Dopo che non ero più le cose e le altre persone, ero i miei pensieri. Non ero però il mio Sé, che si contrappone ai miei pensieri. Dovrei dunque elevarmi anche al di sopra dei miei pensieri per raggiungere il mio proprio Sé. Lì conduce il mio viaggio. Esso conduce dunque lontano da persone e cose, nella solitudine. Ma è solitudine restare con sé stessi? Solitudine probabilmente solo se il Sé è un deserto» (Libro rosso).
Ecco il cammino: ritrovare quel Lazzaro interiore, ridargli nome, nutrimento, dignità. Altrimenti il Sé resta deserto, e la vita scivola via anonima, come quella dell’epulone.