Tutto ciò che nasce, muore. E tutto ciò che muore, si trasforma.
La scienza ce lo insegna con la sobrietà dei fatti: nessuna particella dell’universo si crea dal nulla, nessuna scompare nel nulla. Tutto cambia forma, come l’acqua che evapora, si fa nube, poi pioggia e poi ancora fiume, e mare, e vapore.
L’universo è una danza di metamorfosi. Una sinfonia di nascite e dissoluzioni. E noi — noi che pensiamo, che amiamo, che tremiamo di paura davanti alla morte — siamo parte di questa danza. Siamo vita che conosce sé stessa per un istante.
Quando parliamo di morte, pensiamo sempre ad una ‘fine’. Ma “fine” è parola ancora dell’ego non dell’universo. Nella lingua della materia e dello spirito, la morte significa trasformazione.
Gli antichi lo sapevano benissimo. Empedocle diceva che nulla nasce né perisce, ma si mescola e si separa. E i saggi d’Oriente chiamavano questa legge Brahman, Atman, Dao:
il Tutto che mai cessa di essere, il respiro che attraversa ogni forma.
Anche la fisica moderna, che tutto misura, sospetta la medesima verità: ogni forma visibile è solo un nodo temporaneo, in un oceano di energia e informazione. Che ogni cosa è relazione, risonanza, eco di un’unica vibrazione.
È vero, noi diciamo “muoio”, ma in realtà tutto ciò che siamo ritorna: ritorna alla terra, all’aria, al sole, alle radici di altri esseri viventi. Morendo, restituiamo ciò che ci è stato donato. La foglia che cade non teme la terra. Sa di essere parte dell’albero, e che, anche cadendo, continua a nutrirlo. «Non dire che sono solo questa forma», risponde la foglia al monaco Thich Nhat Hanh, «io sono tutto l’albero. Quando cadrò, tornerò a nutrirlo».
Forse anche noi potremmo dire così: non sono soltanto questo corpo che invecchia, questo io che teme la fine. Sono parte del grande albero della vita, e quando cadrò, non cadrò fuori dal Tutto — ma dentro al Tutto.
Il Mistero è che la morte non distrugge la vita: la compie. È l’altra faccia della nascita, la porta attraverso cui la vita continua a fluire.
Ogni organismo che muore lascia un’eredità invisibile. Non solo materia, ma informazione, memoria, coscienza diffusa. Una parte del suo canto rimane nel cosmo.
Per questo, forse, nulla si perde. Tutto è conservato in una grande memoria cosmica, in quel fondo silenzioso che i mistici chiamano Dio, e i fisici chiamano campo, e i poeti amore.
Accogliere la morte non è dunque un rassegnarsi, è riconciliarci con la vita. È smettere di opporre resistenza al flusso che ci attraversa. È dire: “Sia fatta la tua trasformazione in me”.
“Se vuoi la vita, prepara la morte”, scriveva Hans Küng. Preparala non con paura, ma con fiducia. Perché chi accoglie la propria finitezza, scopre l’infinito che la abita.
In fondo, viviamo meglio la vita quando smettiamo di fuggire la morte. Quando impariamo a lasciar scorrere tutto: i giorni, le relazioni, le stagioni, le gioie e i dolori, sapendo che ogni cosa ha un tempo, e che il suo tempo è sacro. Morire, allora, non sarà uno spegnersi, ma solo un aprirsi. Un dilatarsi fino a non avere più confini. È restituire alla vita ciò che la vita ci ha dato. E in quel momento — quando tutto sembra dissolversi — forse comprendiamo che non siamo mai stati separati. Che ciò che chiamavamo “io” è sempre stato parte di un Respiro più grande, di un cuore che batte in ogni creatura, di una luce che non conosce tramonto. Forse è questo che Gesù voleva dire quando spezzò il pane e disse: “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo.” Non un corpo offerto una volta per tutte, ma la rivelazione di un principio cosmico: la vita si trasmette solo donandosi.
Ogni morte è un atto d’amore. Ogni caduta, una comunione. Ogni dissoluzione, una pasqua. Quando verrà il momento di lasciare, possiamo dire come la foglia all’albero: “Non avere paura. Ci ritroveremo nel vento, nella luce, nel silenzio che tutto abbraccia.
Non c’è fine, solo trasformazione.”
