Mt 24, 37-44
Noè si prepara alla ‘tempesta perfetta’: non a una pioggia qualunque, ma a quell’urto che prima o poi, in ogni vita, arriva per spazzare via il superfluo e lasciare emergere ‘l’unum necessarium’, l’unica cosa di cui davvero abbiamo bisogno. Il diluvio è un mito che parla alla nostra vita: prende le forme di un dispiacere improvviso, di un fallimento che incrina le certezze, di una crisi interiore, del buio che cala sulla mente, di una malattia, di un incidente, della morte stessa…
I contemporanei di Noè, racconta il testo, «non si accorsero di nulla». Loro continuano a mangiare, bere, mettere al mondo figli… Tutte cose anche buone ma incapaci — da sole — di salvare quando la vita scuote le fondamenta. E infatti furono travolti.
Gesù torna a metterci in guardia: che cosa è davvero necessario per non soccombere al diluvio? Pare una sola cosa: l’attenzione. La salvezza non è un premio, ma atto di consapevolezza. È il cuore desto, vigile, capace di cogliere ciò che conta nel momento in cui tutto vacilla.
Un antico libro alchemico del Seicento custodisce una parola enigmatica: VITRIOL. È un acrostico che recita così: “Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem”, ovvero: «Visita l’interno della terra operando con rettitudine e troverai la pietra nascosta».
A livello simbolico il messaggio è di una forza sorprendente: scendere nell’’interiora terrae’ è un invito a entrare nelle profondità del proprio essere, a raggiungere quel luogo segreto dove si rivela ciò che resta quando il resto crolla. È lì che si trova l’unica cosa necessaria, ciò che ci costituisce in modo definitivo, ciò che la tempesta non può portare via. Il Sé autentico.
Tutte le tradizioni, dalle più arcaiche alle più raffinate, non hanno fatto altro che ripeterci questo: ritorna al Centro. È nel buio, nel nascondimento, nel grembo silenzioso dell’interiorità che qualcosa può finalmente maturare e venire alla luce. La vita stessa lo insegna: il seme ha bisogno della terra scura, il feto dell’ombra protettiva del grembo.
Gli antichi lo sapevano bene.
In Egitto le iniziazioni avvenivano nelle piramidi o nelle cripte sotterranee. In Persia si scendeva nelle grotte; i popoli nativi d’America costruivano capanne destinate proprio alla discesa iniziatica. I misteri di Mitra si celebravano nei templi sotterranei, e l’iniziazione era la discesa nel ventre della Grande Madre.
Nella mitologia greca, Orfeo discende nell’Ade per ritrovare Euridice, simbolo della sua anima smarrita. Il dio hindù Krishna scende negli inferi per liberare i suoi sei fratelli — immagine dei sei chakra — essendo lui stesso il chakra della corona, il vertice dell’ascesa spirituale.
Non c’è scampo: prima di salire bisogna scendere. Prima di ritrovare la vita, bisogna attraversare il proprio sotterraneo. Il primo passo verso quella terra in cui la vita si dà in pienezza — che il Vangelo chiama regno di Dio o regno dei cieli — passa attraverso il viaggio verso sé stessi.
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44). Il tesoro non è fuori, è nel campo che siamo.
E Agostino lo conferma: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas». Non andare fuori: rientra. È nell’interiorità che abita la verità.
E la voce di Meister Eckhart gli fa eco, con la sua precisione adamantina:
«Chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti nessuno può conoscere Dio, se prima non conosce sé stesso» (Sermoni).
Che l’Avvento sia dunque questo: un tempo di silenzio, di nascondimento, di ritorno al buio fecondo da cui nasce ogni luce. Un esercizio di distacco, di svuotamento, di morte simbolica, perché solo ciò che muore a sé stesso può risorgere alla Vita.
Il ‘diluvio’ che potrà abbattersi sulla nostra vita non sarà più una minaccia, ma piuttosto rivelazione. Non tanto una fine ma opportunità d’un nuovo inizio. E in mezzo alla tempesta, come Noè, scopriremo finalmente ciò che resta. Ciò che salva.
Ciò che siamo.
