Mt 11, 2-11
Giovanni il Battista attendeva da lì a poco l’irruzione dell’ira di Dio. Era convinto che questa dovesse manifestarsi nell’uomo Gesù di Nazareth, come forza capace di rimettere in ordine il mondo, di separare, di colpire, di purificare. Nei tempi di crisi, da sempre, l’umanità invoca una figura forte: un messia, un salvatore, un capo. Qualcuno che tagli, che giudichi, che ristabilisca.
Giovanni prende sul serio questa attesa. Le sue parole sono nette, taglienti come la scure di cui parla. Le troviamo all’inizio del vangelo: «La scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Colui che viene dopo di me è più potente di me… Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile» (Mt 3, 10ss.). È l’immagine religiosa di Dio: forza che separa, setaccia e giudica.
Eppure, Gesù non sembra rispondere a questa attesa. Proprio per questo Giovanni, dalla prigione, gli manda a chiedere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?». È come se anche lui, per la prima volta, sentisse vacillare l’immagine di Dio che aveva da sempre custodito.
Gesù non risponde con una definizione, né con una dichiarazione di identità. Risponde mostrando un movimento: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo». Il divino, se si manifesta, lo fa così: passando attraverso la vita che rifiorisce, attraverso corpi che si rialzano, attraverso dignità che tornano a respirare.
Quando la vita può emergere, quando la dignità delle persone viene restituita, quando la creazione tutta intravvede la possibilità del suo compimento, allora qualcosa di Dio sta accadendo. Il segno non è il fuoco che distrugge, ma la vita che si riaccende.
Dio altro non è che vita emergente.
Per questo Gesù di Nazareth non appare tanto come un Dio che si fa carne, quanto un uomo che incarna ciò che è la divinità: vita portata avanti, respiro che non si arrende, fecondità che genera, umanità che giunge alla sua pienezza. E ciò che egli vive diventa anche la nostra vocazione più profonda.
Il Natale, allora, non è prima di tutto la celebrazione di qualcosa che discende dall’alto, ma la memoria che anche noi possiamo vivere “da dio”, ogni volta che dilatiamo la vita, la nostra e quella degli altri. Ogni volta che facciamo spazio alla luce dentro le pieghe dell’umano.
Forse dovremmo imparare a non attendere più la vita dall’alto, ma a riconoscere che siamo chiamati a partorirla. E se di grazia vogliamo parlare, è una grazia che prende la forma della responsabilità. Come scrive Teresa Forcades, la grazia non è tanto «un fiore da cogliere, quanto un pane da impastare».
Dio è pane da impastare, carne da incarnare, amore da donare, vita da elargire.
E così il Natale non lo celebriamo accogliendo semplicemente un bambino che ci viene consegnato dall’alto, ma scegliendo di incarnare il bene, diventando, giorno dopo giorno, più umani.
