OMELIA 17a Domenica Tempo Ordinario anno A

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.45Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.47Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.51Avete compreso tutte queste cose?. Gli risposero: “Sì”. 52Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”».

Matteo, attraverso il suo Vangelo, ha cercato di presentare ciò che a sua volta ha scoperto, ovvero quel tesoro in grado di compiere il cuore dell’uomo. Quel tesoro da sempre desiderato, perché ritenuto sufficiente e necessario per la felicità e il senso del vivere.

Questo tesoro, altro non è che il Vangelo stesso, ovvero la bella notizia che Dio è Padre, Amore assoluto, misericordia senza limiti; che io sono figlio amato e che l’altro è fratello da amare come il Padre ama me.

Ora, la domanda che fece propria la Chiesa primitiva fu questa: ma dinanzi a quest’Amore folle di Dio per ogni sua creatura, cosa fare concretamente, come viverlo?

Anzitutto – dice Matteo – la scoperta di questo tesoro comporta una decisione esistenziale.

Ho trovato questo tesoro nel mio campo, ovvero nella mia storia, nel mio vivere quotidiano. Ho scoperto che l’unico modo per vivere con senso è fare il bene come possibilità di vincere il male: vivere la misericordia verso tutti, attraverso il perdono incondizionato; dare la vita perché l’altro possa vivere in pienezza. Ho scoperto insomma il tesoro come stile di vita, modo di pensare, di giocarmi le relazioni, sul modello dello stile di vita di Gesù.

A questo punto Matteo – attraverso il recupero delle parole di Gesù – ricorda che non basta essersi imbattuti (prima parabola), o aver scoperto dopo lunghe ricerche (seconda parabola) il segreto dell’umano vivere, occorre anche vivere tutto questo nella propria carne, decidersi per esso. E decidere, letteralmente significa troncare.

Il protagonista della prima parabola, finalmente scoperto ciò che compie il suo cuore, decide, investe tutto ciò che ha su questo tesoro, troncando con altre possibilità, con altre ricchezze, dicendo no ad altre promesse di felicità, voltando le spalle ad altri venditori di sogni. E tutto ciò con gioia!

L’amore chiede tutto; camminare con un piede in due scarpe, risulta perlomeno un po’ scomodo…

Ogni decisione ti obbliga a lasciare qualcos’altro; scoperta la logica dell’amore, abbandoni la mentalità giocata sulla violenza, sul potere, sul successo, sull’accumulo.

Oggi si fa sempre più fatica a decidersi; s’intuisce anche la strada per la vita, ma non si ha il coraggio di troncare con altri sentieri. Si vuole stringere tutto, senza mai giungere ad abbracciare nulla.

Se l’uomo della prima parabola s’imbatte casualmente nel tesoro nascosto nel suo campo (v. 44), il secondo è un pescatore (v. 45-46), a quanto pare intenditore di – letteralmente nel testo greco – “perle belle”. Egli sa bene cosa sta cercando.

In fondo, siamo tutti cercatori di perle. Cerchiamo la perla bella, quella di grande valore, in grado di darci la felicità, e il nostro cuore non trova pace sino a quando non troverà proprio quella.

Nel corso della vita capita d’imbatterci in miriadi di altre perle, a volte di bassa bigiotteria, ma nessuna è come quella di cui eravamo in ricerca. Curioso, è come se ci portassimo dentro, chissà come mai, l’immagine di “quella” perla. Come se l’avessimo già contemplata da qualche parte, come se sapessimo che solo quella è la mia perla bella, come se qualcuno ce l’avesse già mostrata o perlomeno ce ne avesse già parlato. E quando vediamo, tocchiamo, gustiamo, godiamo di tante altre simili, ma non uguali, alla fine – esausti e tristi – diciamo: non è quella per cui io son fatto, non è quella che desideravo. Ho bisogno d’altro. Son fatto per altro.

Sotto l’azzurro fitto

del cielo qualche uccello di mare se ne va;

né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:

«più in là» (Eugenio Montale, Maestrale).

 

Qualunque cosa tu dica o faccia

c’è un grido dentro:

non è per questo, non è per questo! (Clemente Rebora, Sacchi a terra per gli occhi).

 Quando poi riusciamo a trovarla, allora possiamo anche gettare via tutto il resto. Come Paolo che arriverà a considerare tutto ciò che fino ad allora gli sembrava essenziale e necessario per il suo compimento, semplicemente sterco:

«Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura (lett = sterco), per guadagnare Cristo» (Fil 3, 8).

Ognuno di noi si porta dentro una promessa di felicità, ed è doveroso che nessuno si accontenti di un qualcosa d’inferiore al desiderio di felicità che lo abita.

La terza parabola (vv. 47-50) ci fa compiere un passo ulteriore. Abbiamo visto come Dio sia amore immeritato, gratuito, rivolto a tutti in quanto Dio non può fare preferenze di persone. Ora dinanzi a questo essere di misericordia, come mi comporto? Ovvero, se Dio ama me in questo modo, io come vivo il rapporto con gli altri? L’amore è per tutti, ma da qui scaturisce la responsabilità personale.

Se l’amore di Dio, incarnato poi nella Chiesa che come una rete accoglie tutti, ma proprio tutti e riversa su tutti il suo amore, tu che hai fatto esperienza di questo, come ti giochi l’amore che ti è stato offerto?

Prima il dono e poi la responsabilità. Non basta godere dell’amore di Dio. La salvezza è insieme grazia e responsabilità.

Se ricevuto questa misericordia, non mi faccio misericordia, perdo anche la misericordia che ho ricevuto!

Questo non essersi giocati nella misericordia è il “pesce cattivo”, da intendersi come guasto, fallito, inutile. Se, avendo fatto esperienza dell’amore non mi sono di conseguenza edificato attraverso il medesimo amore che tutti accoglie, che tutto perdona, che tutto recupera, ho fallito la mia figliolanza, ho tradito l’amore. E sono gettato fuori dalla rete, semplicemente perché costruitomi fuori dall’amore.

Una vita guasta, fallita, non buona, a cosa può servire? Come la zizzania (Vangelo di domenica scorsa) verrà presa e bruciata; semplicemente distrutta. I giusti, i buoni della parabola saranno invece coloro che hanno vissuto del medesimo amore che hanno ricevuto e sperimentato nella propria storia. E questa vita sarà conservata, come il grano che andò a finire nel granaio di Dio.  Ma occorre fare un passo ulteriore. Sappiamo, infatti, che la separazione non avviene tra due parti di umanità, i buoni e i cattivi, ma tra la parte di me che si è formata amando, e quella che si è distrutta attraverso il male compiuto.

Quando il mondo, la storia giungerà a compimento, allora la Parola di Dio (gli angeli, v. 49b) mi giudicherà, ovvero distinguerà in me ciò che si è costruito nell’amore e ciò che ha fallito nel male. E l’amore di Dio che è fuoco divorante, distruggerà questo male, ovvero quella parte di me che ha fallito nell’egoismo, nel potere, nell’incentramento sull’io. E rimarrà – ancora una volta – solo ciò che è bene.

In questo modo non ha più senso domandarsi: ma allora se Dio salverà tutti (la rete che accoglie tutti) che bisogno c’è ancora di far qualcosa? Tanto son salvo, vivo come voglio! No, perché l’amore reclama la responsabilità. Dio ama tutti, perdona tutti e tutto, ma proprio per quest’amore che mi ha raggiunto, mi chiede di vivere, di spendermi secondo il medesimo amore riversandolo sui fratelli. Si risponde all’Amore divenendo responsabili.

Scoperto il tesoro (prime due parabole), presa la decisione di spendere tutto per questo amore, vissuto in consonanza di questo tesoro (terza parabola), ora Gesù ci ricorda che occorre testimoniare al mondo intero, ad ogni creatura che tutto questo è la via alla felicità. Non possiamo tacere ciò di cui abbiamo fatto esperienza (cfr. At 4, 20).

È ciò che sta facendo Matteo stesso, identificatosi con lo scriba (quarta parabola), che proclama la bellezza e grandezza del Vangelo, la sua novità disarmante (cose nuove), sempre fondato però sulla tradizione precedente, come un compimento (cose antiche). Perché la novità, per essere vitale, deve avere radici molto profonde, altrimenti è solo fumo negli occhi, o specchi per allodole.