OMELIA 20a Domenica Tempo Ordinario anno A

«Partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. 22Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. 23Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: “Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!”. 24Egli rispose: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”. 25Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!”. 26Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. 27”È vero, Signore – disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. 28Allora Gesù le replicò: “Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita».

 

 

È l’incontro tra due uscite. Gesù, dice il testo greco, «usci di là» (v. 21) e non come recita la traduzione: «partito di là», e la donna «uscì da quella regione» (v. 22), e non «veniva da quella regione».

Dio esce da sé, per incontrare me che esco dalle mie sicurezze, dalla mia presunta capacità, dalla mia integerrima religiosità colpevole di farmi sentire a posto e meritevole di salvezza.

Gesù ha appena terminato di discutere con i farisei e gli scribi (Mt 15, 1-20), definendoli ipocriti (v.7), ovvero attori. Gente tutta intenta alla religiosità, all’osservanza, al mantenersi puri dinanzi al loro dio, nella speranza di poter essere così graziati per l’opera compiuta. Gente ricca di meriti, di atti santi, di sacrifici; persone con le quali Gesù ha sempre fatto una fatica immane, tanto da dire ai suoi discepoli, riguardo loro: «Lasciateli stare!» (v. 14).

 

Da un’attenta lettura del Vangelo, si evince che i veri nemici di Gesù, gli ostili, non sono coloro che gli fanno del male, perché il male scatenato addosso a Dio, all’Amore è come benzina sul fuoco: alimenta maggiormente l’amore stesso. La croce, infatti, è il massimo male scaricato su Dio, male che ha provocato, come risposta, il massimo bene di Dio a favore di quell’umanità che gli ha fatto il male.

 

Maligno, nei confronti di Dio, in ultima analisi sarà sempre chi impedisce a Dio di manifestarsi per quello che è, ossia come amore, perché tutto intento ad anticiparlo sempre nell’atto di amare! Infatti, è Dio ad averci amati per primo (cfr. 1Gv 4, 19). Maligno è Pietro, tanto da essere chiamato satana da Gesù, in quanto non accetta di essere raggiunto dall’amore crocifisso (Mt 16, 22s.), lui tutto desideroso di lavare i piedi quando la salvezza è lasciarsi lavare i piedi da Dio (cfr. Gv 13, 6-8).

Satana sono i farisei e gli scribi di sempre, intenti a prostrarsi a Dio con affettata religiosità, impedendogli in questo modo di essere Dio per loro.

Il Vangelo è continuo invito alla conversione dei buoni, dei ‘santi’, di coloro che presumono di farcela da soli!

Il Vangelo è salvezza riservata a tutti, ma proprio a tutti coloro che se ne son sempre sentiti indegni ed esclusi.

 

La protagonista del nostro brano è infatti una povera donna, una pagana, una lontana da Dio, un’impura, la cui unica consapevolezza è di essere tale, infatti accetta di essere paragonata a un cane, animale impuro per eccellenza nella Bibbia. Eppure da questa sua unica verità scaturisce il grido salvifico: «Pietà di me Signore» (v. 22b). Dove “pietà” non assurge a richiesta di perdono, ma è molto di più: invocazione di soccorso, di vita, di fecondità, di pienezza. Infatti questa donna invoca l’acqua salvifica dall’unica fonte in grado di farla sgorgare, e non tanto per se stessa, ma per sua figlia, tormentata da un demonio (v. 22c).

 

La preghiera è grazia che trasforma la persona da ostile a Dio, perché troppo impegnato ad ‘amarlo’ per primo, a ospitante di lui, capace cioè di accoglierlo come ospite recante il dono della vita.

 

Avere una figlia tormentata da un demonio, significa possedere la vita malata, il futuro compromesso, la speranza fallita, perché la genitura è vita prolungata oltre la propria stessa esistenza.

 

La donna grida ma Gesù non risponde (v. 23a).

La donna grida ma i discepoli non la sopportano e chiedono di allontanarla (v. 23b). Pericolo di sempre dell’uomo religioso: fare di Dio un’appropriazione indebita, escludendo di fatto chi ‘non è dei nostri’.

 

Ma dinanzi al ’silenzio di Dio’ e alla repulsione dei discepoli, la donna insiste, e lo fa prostrandosi, ovvero adorando (v. 25). L’adorazione che agli occhi del mondo risulta essere la massima inazione, agli occhi di Dio è l’atto più colmo di fecondità.

 

«Signore aiutami!» (v. 25). Come il «Signore salvami» di Pietro di domenica scorsa (Mt 14, 30), come il «ricordati di me» del ladrone crocifisso (Lc 23, 42), come il grido d’aiuto di tutti noi immeritevoli di tutto ma proprio per questo preposti a ricevere tutto.

 

Mi sovviene alla mente l’ottava strofa della sequenza del Dies Irae, che nella sua efficacia poetica così si esprime:

 

«Rex tremendae majestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis»

[Re di tremendo potere,
tu che salvi per grazia chi è da salvare,
salva me, fonte di pietà].

 

 

Fonte di pietà… Salvami per grazia… Bellissimo.

E la donna ebbe la vita guarita, proprio «in quell’istante» (v. 28b), l’istante in cui la povertà assoluta della donna s’incontrò e fece tutt’uno con la grazia assoluta dell’Amore. Perché il pane ovvero la vita – presente totalmente anche nel frammento (le briciole, v. 27) proprio ora è riservato a me, pagano in quanto adoratore d’infiniti finti idoli, ladrone – e neanche buono – in quanto usurpatore dell’amore di Dio e del fratello, sempre in procinto di annegare come Pietro, in quanto con lo sguardo ingannevole volto sempre ad altra luce.