OMELIA 20a Domenica Tempo Ordinario. Anno B

«”Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. 53Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”». (Gv 6, 51-58)

 

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna (vv. 51. 54).

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue lo risusciterò nell’ultimo giorno (v. 54)

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui (v. 56).

 

In pochissimi versetti, Gesù torna con insistenza sulla necessità di “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”, anche perché la posta in gioco è altissima: in questo modo si ha ‘vita eterna,’ si verrà “risuscitati nell’ultimo giorno”, e si vive già ora in un rapporto unico col Cristo. A questo punto s’impone una domanda: cosa significa concretamente ‘mangiare e bere la sua carne e il suo sangue’? Come accennato in un commento precedente, occorre essere molto prudenti a non pensare subito al pane e al vino eucaristici; detto in altri termini questo mangiare e bere, non è riferito tout court al ‘fare la comunione’ durante la Messa.

 

Carne e sangue fa riferimento alla vita dell’uomo. L’essere umano è fatto di carne e sangue, per cui c’è da credere che Gesù indicasse la necessità di vivere, entrare in un rapporto vitale con la sua persona, quella concreta fatta appunto di carne e sangue, quella fattasi storia. A questo punto però la nostra domanda si fa ancora più complessa e cogente: come vivere oggi questo rapporto così intenso e vivo – da paragonarlo al ‘mangiare e al bere’ – con la persona di Cristo?

 

Certo, è molto più semplice – e insieme deresponsabilizzante – rifugiarsi immediatamente nell’interpretazione del ‘fare la comunione’. Tutto sommato non è poi un grosso sforzo assistere alla Messa domenicale, per quanto noiosa e pedante possa essere, se il fare la comunione è foriero di così grandi doni! Parafrasando Enrico IV potremmo affermare: “avere la vita eterna, godere della risurrezione, e vivere in Cristo, val bene una Messa!”.

 

Ma – mi pare – il testo vuole indicarci qualcosa di più profondo e maturo.

Sono anni che ascolto madri e pie nonne – preoccupate le prime e angosciate le seconde – a lamentarsi di figli e nipoti, che ormai da tempo han cessato di partecipare alla Messa domenicale, di non vivere più i sacramenti e quant’altro… Non mi è mai capitato però di ascoltare, con altrettanto senso d’angoscia, madri e vecchie signore a domandarsi quale sia il livello di onestà profuso nel lavoro dai propri figli, se il loro patrimonio è accumulato solo per arricchirsi o piuttosto per trasformarlo in mezzo di condivisione con i poveri e riutilizzato magari per creare nuova ricchezza a beneficio di tutti; se le banche da loro utilizzate sono colluse con il commercio infamante di armi; non le vedo poi così angosciate nel pensare che alle prossime elezioni i loro cari figlioli e nipoti appoggeranno un partito razzista e xenofobo perché stanchi di orde di immigrati e rifugiati che vengono a togliere loro la preziosa serenità; non le ho mai viste scandalizzate perché i loro ragazzi non fanno spazio, nelle loro comode abitazioni, a quei disgraziati che non hanno più un tetto sotto cui ripararsi, o magari domandarsi se alla prossima dichiarazione dei redditi denunceranno il giusto…

Possibile dunque che la carne e il sangue di Dio sia solo quello prigioniero in una cella dorata di un tabernacolo, o non piuttosto la carne agonizzante nei barconi della morte, negli asfittici centri di accoglienza, nelle carceri sovraffollate, nella carne dei bambini abusati, delle donne maltrattate, degli psichiatrici derisi, degli operai derubati, dei precari maltrattati? E’ ancora tempo, mi domando, di turbarci dinanzi all’ormai irrisoria partecipazione al precetto domenicale, e non piuttosto d’indignarci e scandalizzarci del Cristo devastato nella persona di tanti poveri del mondo?

 

Ecco cosa vuol dire, credo, ‘mangiare la carne e bere il sangue di Dio!’ Entrare in relazione con la sua persona nel nostro povero quotidiano: toccare, guardare, curarsi della carne e del sangue di tutti i poveri cristi con cui ha voluto identificarsi nella storia, perché ancora una volta dagli altari  delle nostre chiese continua a gridarci che «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

Questo è in ultima analisi, l’unica possibilità di vivere questa nostra breve vita in maniera eterna, ossia felice e realizzata, e in una compagnia – quella di Cristo – in grado di non far sperimentare la morte per sempre.