OMELIA 27a Domenica Tempo Ordinario anno A

«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 40Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?”. 41Gli risposero: “Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. 42E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:

La pietra che i costruttori hanno scartato

è diventata la pietra d’angolo;

questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi
?

43Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

 

Dio ha un desiderio, che l’uomo viva come in un giardino, uno stato di pace, serenità e che in questa sorta di paradiso terrestre possa godere dei frutti della vigna, ovvero di quel vino che nella Bibbia è segno della gioia, della festa.

Per questo ci ha introdotti in questo mondo, perché potessimo viverci in maniera compiuta, felici, realizzati. Con il grande compito di gestirlo, di trasformarlo, di farne il luogo della nostra gioia. A quel punto lui ha deciso di non entrarci, di non interferire, di amarci senza intromissioni, rendendoci responsabili della nostra compiutezza, perché l’amore desidera la libertà dell’amato.

Un Dio insomma, il nostro, che in qualche modo sta a guardare, con l’immensa speranza che la sua creatura possa realizzarsi in pienezza e diventare figlio.

Mi ha sempre colpito un aforisma del grande scrittore tedesco Goethe: «Nel bene e nel male, per possedere davvero ciò che abbiamo ereditato dal padre dobbiamo riconquistarlo».

Ciò che riceviamo in dono, da parte degli uomini e di Dio, va conquistato.

Dio ci ha dato tutto in dono, ma non ci ha regalato nulla. Ce lo dona affinché lo possiamo (ri)conquistare, lo facciamo vivere, lo portiamo a compimento. Egli ci ha fatto dono della terra, di questo giardino meraviglioso ma non come regalo; come ha dato al popolo la terra promessa, ma senza regalargliela.

Dio ci dà la vita, ma non ce la regala. Tutto è come in nuce, tutto ci è donato come seme, ma a noi il compito di portarlo a compimento, di realizzarlo, di farlo sbocciare. Qui vi è inscritta la nostra responsabilità. Ciò che abbiamo ricevuto va “salvato”, dove salvare in ebraico significa appunto dilatare, spalancare verso nuovi orizzonti, far sbocciare.

 

Noi non siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gn 1, 27) nel senso di qualcosa compiutosi all’origine di noi, ma come qualcosa che ci sta dinanzi: attraverso il nostro vivere quotidiano ci compiamo sempre più ad immagine e somiglianza di Dio. In un certo senso non siamo creati, ma siamo in creazione. La pietra è creata, l’uomo è in divenire; siamo tesi al compimento di noi, sino a diventare come Dio, nostra ultima vocazione.

 

Il nostro brano afferma al v. 34 «Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti». Certo perché una vita che non produce frutti è una vita sterile e perciò insensata. Che senso ha vivere nell’infecondità, senza diventare ciò che avremmo dovuto essere?

Il primo comandamento di Dio dato all’uomo è stato infatti: «Siate fecondi» (Gn 1, 28). Ma non nel senso di moltiplicarsi nel mondo col mettere al mondo figli, ma in senso esistenziale: che la tua vita sia feconda, sia bella, vera, dia frutti di vita affinché coloro che ti si accostano possano viverne di conseguenza.

 

D’altra parte l’opera di Gesù nel mondo è volta proprio perché tutti i figli del padre producano frutti di vita: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15, 16).

 

Dio attende che portiamo frutti, perché in questo modo ci umanizziamo, e umanizzandoci diventiamo come lui, divini! Gesù è la primizia di questo compimento: da vero uomo a Betlemme a vero Dio sulla croce dove gridò: tutto è compiuto, si è realizzato pienamente l’uomo Gesù, secondo il desiderio del Padre. Dall’albero della croce ora pende il frutto per eccellenza, Gesù ha raggiunto la maturità e la fecondità massima in grado di fecondare l’umanità intera.

 

Ecco perciò che è bene portare frutti, vivere di amore, perché questo ci compie, ci realizza. Non è un dovere come obbedienza, ma come possibilità: dobbiamo essere fecondi perché possiamo esserlo, ce ne è stata data la possibilità.

 

Dio nella parabola chiede i frutti della sua vigna, non come un esattore però, ma perché io ne possa godere. Nella parabola dei talenti, nel capitolo 25 di Matteo, il padrone torna, esige che gli siano presentati l’ammontare dei talenti che in sua assenza son stati trafficati, ma alla fine dice a ciascuno: «bene, servo buono e fede, sei stato fedele nel poco avrai potere su molto» (v. 21); se si fa attenzione, non si dice che il padrone abbia preteso per sé quel tesoro fatto fruttare dai servi. Per cui il servo oltre a quanto ha moltiplicato e che tiene per sé, partecipa anche della gioia del suo signore. L’amore parla sempre di sovrabbondanza.

 

Il padrone qui invia i suoi servi a ritirare il raccolto (v. 34). Il testo si riferisce in particolare ai vari profeti della storia di Israele, inviati col compito di dire al popolo il sogno di Dio, appunto che ciascuno fosse fecondo, della necessità di portare frutto, di essere vivi veramente. Questo è in fondo il compito della Chiesa di sempre, ricordare all’uomo, e agli uomini e donne di ogni epoca, la loro vocazione: “Siate fecondi” di vita! Ma il testo ci dice che questi profeti – ieri come oggi – fanno una brutta fine: «uno lo bastonarono, uno lo uccisero, l’altro lo lapidarono» (v. 35), chiaro riferimento quest’ultimo a Stefano, primo martire della Chiesa, morto lapidato.

Il mondo risponderà sempre così a quel Dio che desidera i frutti dei suoi figli. Perché il frutto buono, quello che dà vita, quello fecondo, può scaturire solo dall’albero buono (cfr. Mt 7, 17s.), ovvero dall’amore. Ora il mondo produce frutti cattivi perché vive fuori dall’amore, perché i suoi rami sono il potere, l’avere e il successo. Di produrre frutti che danno vita esso non ne vuole sapere: fare il bene è difficile, dà fastidio, mette in crisi. È preferibile muoversi nelle tenebre.  «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3, 19).

 

Allora il male si coalizzerà contro il bene, le tenebre contro la luce.

Ma Dio – l’Amore – non si dà per vinto; le tenta tutte per muovere gli uomini a portare frutti, a staccarli dal male che li sta rovinando, fino a giocarsi l’ultima carta che aveva: il Figlio, l’amato, l’altro se stesso. Gesù. L’amore non gioca al ribasso: dinanzi al pericolo alza la posta! L’amore sciala.

Ma anche questo bene prezioso, il figlio amato viene preso e ammazzato.

Ma ecco succedere l’impensabile: il male fagocitando il bene, non lo distrugge, ma lo esalta. La tenebra inglobando la luce non la spegne ma ne rimane illuminata.

«La luce splende nelle tenebre / e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1, 5).

I contadini omicidi dicono una frase che risulterà alla fine una splendida profezia: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!» (v. 38). Niente di più vero!

Dall’aver messo a morte Dio, gli assassini ebbero in cambio l’eredità stessa di Dio, ovvero la sua stessa vita. Perché l’amore funziona solo così! Dà la vita a chi gliela toglie, perdona chi lo ferisce, accoglie chi lo rifiuta. Altrimenti sarebbe semplicemente uomo, che toglie la vita a chi attenta alla sua, fa violenza a chi lo ferisce, e allontana chi lo rifiuta. Dopo averlo trafitto, il centurione fa la prima grande professione di fede: «Davvero costui era Figlio di Dio» (Mt 27, 54).

Mirabile scambio di doni: noi gli provochiamo la nudità, e lo facciamo morire, ma al tempo stesso ci rivestiamo delle sue vesti di figlio, ovvero della sua vita.

 

A qualcuno però – ancora una volta – questo modo di pensare di Dio non va giù, e verso i contadini omicidi hanno parole di terrore: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo» (v. 41). Questi sono, nel nostro brano, i capi del popolo dei sacerdoti e gli anziani del popolo (Mt 21, 23) cui è riferita questa parabola. Ma in realtà siamo ciascuno di noi quando non leggiamo e comprendiamo la Parola di Dio: «Non avete mai letto nelle Scritture…». Sì perché tutta la Bibbia ci racconta sempre una verità sola: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo».

L’amore diventa fecondo quando viene ferito. Per cui Dio non si lascia mai sorprendere dall’esterno, e il male non avrà mai potere su di lui. È come se il male che gli uomini scatenano su Dio fosse combustibile per la grazia, per la costruzione della vita!

Questo è l’amore che ha il potere di trasformare in bene il male, per il fatto stesso di assorbirlo in sé. Ora questo è potere dato a ciascun cristiano, la Chiesa è chiamata allo stesso principio: vincere il male con il bene (Rm 12, 21).

Chi vive così produce frutti che dureranno per sempre.