OMELIA 28a Domenica Tempo Ordinario anno A

«Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: 2”Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Il Vangelo di questa domenica è la continuazione di quello ascoltato domenica scorsa, la parabola dei vignaioli omicidi: il figlio del padrone della vigna viene ucciso dai suoi stessi operai. Nel brano di oggi abbiamo però qualcosa di strano: il medesimo figlio morto assassinato nel brano precedente, ora si sposa!

Certo, perché l’amore non può essere ‘eliminato’. L’amore se ferito e muore, risorge e passa avanti.

 

Proprio questo figlio, che ha vinto la morte per amore, ora suo padre intende farlo sposare, in modo che divenendo col suo partner una cosa sola, anche quest’ultimo possa godere del medesimo potere, quello di vincere la morte con l’amore.

Fuori di metafora: il Padre non ha altro desiderio che l’umanità convoli a nozze col suo Figlio, che si unisca a lui in un rapporto indissolubile, in un’unione indistruttibile in modo che le prerogative del Figlio passino a tutti i suoi figli, in ultima analisi, che questi diventino divini.

Per questo il Padre indice una grande festa. Egli desidera che tutti, ma proprio tutti, possano partecipare a queste nozze. Egli invita, senza però costringere nessuno, perché l’amore non costringe.

Qual è il luogo di consumazione delle nozze tra Dio e l’umanità? Dove si compirà definitivamente questa unione ‘folle’ tra Dio e la sua creatura? Sulla croce. Quel legno largo una spanna, diviene talamo nuziale dove Dio e umanità divengono una ‘carne sola’. Su quel legno si è consumato il ‘matrimonio’ tra me e Dio.

 

Ma tragicamente, dice il testo, molti non accettano. È vero, l’amore lascia liberi s’è detto, anche di perdersi.

Questi tali che declinano l’invito sono in realtà assetati di vita, di felicità. Dal parallelo di Luca (14, 16ss) evinciamo che ciascuno degli invitati è indaffarato a cercare vita in un improbabilealtrove’. Anche qui sappiamo che alcuni ‘andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari. Tentazione di sempre: pensare di ottenere la vita felice e realizzata nel fare tante cose, per potersela guadagnare, conquistare e meritare.

Ma Dio non si lascia scoraggiare. L’amore è ostinato. Non si stanca di invitare alla vita, per poterla donare ai suoi figli che accettano di lasciarsi raggiungere. Sì, perché la vita vera è solo dono ricevuto. Come tutte le cose fondamentali della vita che non si costruiscono e tanto meno si conquistano, ma si accolgono semplicemente come accadimento della grazia.

 

Infatti il grido del re suona così: «Tutto è pronto. Venite alle nozze!» (v. 4). Nel Vangelo di Giovanni, alle nozze di Cana, gli fa eco Gesù quando dice: «Ora prendetene». La salvezza è lì, non è questione di procurarsela, ma solo di accettarla! È già data, ora basta accogliere, attingere, goderne.

Siamo sempre alle solite. Tutto questo pare troppo bello, e facile, per alcuni.

Siamo sempre stati abituati, fin da piccoli, che le cose soprattutto quelle importanti vanno conquistate e meritate. Per le cose di Dio no!

«Tutto è pronto!». Tutto è già dato. «Venite solo alle nozze…».

 

Abbiamo, al v. 8, una frase tremenda: «gli invitati non erano degni». Tutti quei personaggi che non accettarono di entrare alle nozze, è perché non sentendosi degni di entrarvi se ne andarono altrove per diventarlo ‘un po’ di più’; andarono tutti a rendersi un poco più degni per farsi capaci dell’incontro. Allora per Dio, cos’è che ci rende degni di partecipare alla comunione con lui? La nostra indegnità!

Capiamo la follia sottesa al Vangelo? Alle nozze, alla festa per la propria divinizzazione può partecipare solo chi non si ritiene degno! Per il cuore di Dio, i canoni per definire la dignità, sono capovolti. Chi si percepisce degno, adatto, pronto in base ad una sua presunta ‘santità’, integrità morale, a quelle nozze non potrà mai partecipare. Incredibile! La comunione con Dio (compresa quella eucaristica) è ad appannaggio degli indegni, dei poveri, dei fragili, dei peccatori, altrimenti diverrebbe premio dei buoni. Ma l’amore, si sa, è dono e non ricompensa.

 

Infatti alle nozze entrano tutti quelli che stanno nei crocicchi delle strade (v. 9), i mendicanti! Solo il mendicante può essere raggiunto, perché tende la mano per farsela riempire e riportare a casa. Questo è l’atteggiamento veramente cristiano: nella propria situazione – per quanto drammatica essa sia – tendere la mano per ricevere in dono la vita. Dio non attende altro da noi.

Luca va ancora oltre, e nella sua rilettura di questa parabola afferma che il re manda il servo a cercare quelli che una certa mentalità ha sempre ritenuto perduti e lontani da Dio: «conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» (Lc 14, 21). Storpi, ciechi e zoppi erano per il santo Israele la triade ‘maledetta’ esclusa dal Tempio di Gerusalemme, e quindi dalla comunione con Dio.

Adesso, con Gesù di Nazaret, son proprio loro, gli esclusi di sempre, i disgraziati, gli ultimi a diventare atti alle nozze con Dio! «Gli ultimi saranno i primi» (Mt 20, 16).

A queste nozze, entrano tutti, indipendentemente che siano buoni o cattivi (v. 10). Per entrare in comunione con Dio non è questione di essere buoni o cattivi. La questione è entrare, accogliere l’invito, accettare di essere abbracciati dal suo amore. Il cristianesimo non è la religione dei buoni – con la relativa esclusione dei cattivi – ma  semplicemente affidamento (atto di fede) all’Amore che ci chiama a sé.

 

Al v. 11 il re entra per vedere i commensali che finalmente gremiscono la sala delle nozze. E scorge un tale che non indossava l’abito nuziale. Ma cos’è questo abito nuziale?

Nel contesto culturale e religioso del tempo di Gesù, chi era invitato ad una festa di nozze, veniva accolto dallo sposo stesso il quale gli metteva sulle spalle una sorta di scialle, quello che la parabola individua come abito nuziale. Per cui era segno dell’essere stati invitati, accolti. Va da sé che chi entrava al banchetto senza quest’abito, voleva dire che vi era entrato per sua spontanea volontà, autonomamente, con le proprie capacità. Alla comunione con Dio, viene qui ribadito, vi si accede, si partecipa solo per grazia. Per questo il re quando scorge questo tale che entra nella sala con le proprie credenziali, con le proprie capacità, con un merito personale, viene subito espulso: «Legatelo mani e piedi e gettatolo nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (v. 13).

Infatti, in ultima analisi, l’abito cos’è? È il Figlio stesso. Rivestirsi dell’abito nuziale è rivestirsi di Cristo, che crea in noi l’uomo nuovo: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4, 24).

L’unico modo per poterci far rivestire di questo abito, che è il Cristo, è scoprirci semplicemente nudi, e quindi poveri e fragili. In una parola: veri. E insieme accettare di essere raggiunti.

Tornare semplicemente – così come siamo – alla casa del Padre, dove questi, come in Lc 15, correrà incontro al figlio disgraziato dicendo ai suoi servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo».

Se non accettiamo la nostra nudità rendiamo vana la croce di Cristo. Infatti, proprio per quella croce, per quell’amore folle, siamo stati rivestiti della stessa vita di Dio.