OMELIA 2a Domenica di Pasqua. Anno B

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. 22Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. 24Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25Gli dicevano gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”.26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. 27Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. 28Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. 29Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. 30Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». (Gv 20, 19-31)

 

Strano tipo questo Tommaso. Un giorno, se ne uscì con questa bella frase ad effetto: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Gv 11, 16). Tommaso è un coraggioso; è il discepolo pronto a morire per Gesù, il suo maestro. Un vero credente in Dio, verrebbe da dire.

Disposto a dare la vita per i ‘grandi valori’, per dimostrare la sua fedeltà al Signore, per testimoniare il suo essere cristiano. Tommaso è uomo che ama, ma senza speranza. E un amore senza speranza si chiama disperazione.

Tommaso crede in Dio ma non crede all’amore. Non crede che l’amore possa andare oltre la morte, non ammette che l’amore che va ‘fino alla fine’ è destinato a risplendere per sempre; non crede insomma alle parole del suo amato maestro: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24).

Infatti, quel giorno nel cenacolo, i suoi compagni gli raccontano che il chicco di grano che fu sepolto il venerdì santo ora non è più nel sepolcro, perché la morte non ha potuto tenerlo in suo possesso. Ma lui non può credere all’amore. È stato anni con Gesù, l’ha seguito, ha pregato con lui, ha camminato con lui, ma in realtà non ha mai avuto fede in lui,  perché la fede è «conoscere e credere all’amore che Dio ha per noi!» (cfr. 1Gv 4, 16), è credere che l’amore è più forte della morte e rimarrà fedele oltre ogni mia infedeltà e fragilità.

Ecco in cosa consiste la disperazione di Tommaso: nell’essere disposto a sacrificarsi per un qualcosa che è destinato comunque alla tomba, al fallimento, a finire. Morire per una bella idea.

La questione non è schierarsi tra le file dei credenti o dei non credenti. Perché in ultima analisi, il credente afferma ciò che l’ateo nega. Ed entrambi affermano o negano un dio che non esiste.

La questione è essere e vivere da cristiani: affidandosi cioè all’amore del Dio rivelatoci da Gesù, di cui io sono il figlio prediletto.

Essere cristiani vuol dire entrare nelle sue ferite, perdersi dentro quel costato aperto, da cui continua ad uscire sangue ed acqua, ovvero la vita, l’essenza stessa di Dio, lo Spirito donato proprio per me. Vuol dire entrare dentro al buco dei chiodi, per finire dritto dentro al cuore stesso di Dio, sperimentare la fedeltà dell’Amore che dal legno infame non è sceso perché io non vi salissi causa la mia infedeltà. Essere cristiano vuol dire credere che se mi lascio raggiungere da questo amore, allora ne sperimenterò anche il raccolto nella mia vita, ovvero la gioia, la pace, la benevolenza, la mitezza… (cfr. Gal 5, 20); sperimenterò una vita trasformata dal di dentro, che è possibile vivere in un altro modo tutto ciò che mi capita, le relazioni, gli affetti, la genitorialità, il lavoro, il perdono….

Ma se non mi perdo dentro le ferite dell’amore che Dio ha aperto per me, allora tutto sarà avvelenato dal non senso, dalla parola fine e dall’irrevocabilità.

 

Tommaso ha un soprannome, Didimo, che significa gemello. Di chi? Mio.

Tommaso è mio gemello, perché anch’io passo la vita pensando di ‘credere’ in lui, a voler ‘morire’ per lui, ma non ad accettare che lui possa essere l’amore che muore per me; è mio gemello perché sono invitato anch’io ancora oggi a mettere le mie dita – e il cuore – in quelle ferite che continuano a rimanere aperte fino a quando non sarà entrato anche l’ultimo dei perduti.

È mio gemello, ogni volta che nell’eucaristia mi lascerò toccare dal suo amore sotto le specie del pane e del vino, e nutrendomene mi farò capace di toccare la vita dei fratelli, per sperimentare finalmente l’ultima e definitiva beatitudine, ossia cosa vuol dire vivere da risorti e proclamare l’unica professione di fede che conta, perché vissuta nella carne: «Mio signore e mio Dio!» (v. 28).