OMELIA 30a Domenica Tempo Ordinario. Anno B

«E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. 49Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”. 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. 52E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada». (Mc 10, 46-52)

Siamo ciechi, perché ci vediamo benissimo.
Infatti crediamo che quello che si vede, sia tutto ciò che c’è da vedere, mentre è solo la realtà, apparenza. Siamo ciechi a ciò che conta veramente, al reale, al significato profondo delle cose, all’essenza, che si nasconde sotto la buccia, dietro le apparenze.
La verità di una persona non è mai ciò che appare, ma il suo cuore nascosto. Per questo Dio ha uno sguardo diverso su di me: «io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (2Sam 16, 7).
Occorre saper vedere ciò che in realtà è invisibile agli occhi, saper scorgere ciò che fluisce al di sotto della realtà. Ma per far questo occorre possedere una vista ‘altra’, avere una sorta di terzo occhio, così caro ad alcune tradizioni religiose orientali. Per il Taoismo, esistono ottantuno livelli di vista diversi sulla realtà. E paradossalmente, i veri saggi, gli illuminati e i lungimiranti nell’antichità erano sempre dei ciechi.
Occorre chiudere gli occhi a questo mondo per poterci scorgere l’essenziale.
Gesù, nel Vangelo di oggi, compie questo miracolo di illuminazione.

Pensare che la realtà si limiti ad essere un banale coacervo di potere, avere, successo, è essere completamente ciechi. E pensare di poter fare qualcosa per cambiare questa realtà è segno di follia. La realtà è quella che è, e c’è poco o nulla da cambiare, perché modificare la realtà significa il più delle volte fare rivoluzioni e quindi perpetrare violenza.
La questione non è cambiare la realtà, ma guardarla con occhi diversi per poterla poi vivere con un atteggiamento altro. Questa è la fede.
Vivere la vita con fede vuol dire sapere che il male di cui si è spettatori non è l’ultima parola ma solo la penultima; che non occorre opporsi al malvagio, ma piuttosto rispondergli facendo il bene (cfr. Mt 5, 39); che alla tenebra – il male – non va fatta violenza per disintegrarla, ma è sufficiente avvolgerla col bene, con la luce e quella si dissolverà. Vivere con fede significa guardare il mondo come sotto il segno della croce, ossia amato da Dio e quindi già salvato, destinato a un porto di bene.
Cominceremo un cammino di illuminazione quando riconosceremo di essere ciechi, quando prenderemo coscienza di essere ammorbati da una mentalità omicida e suicida, incentrata cioè sul potere, sull’avere e sul successo. Saremo illuminati quando anche noi come Bartimeo cominceremo a gridare la nostra malattia esistenziale, quella che ci ha relegati paralizzati ai bordi della strada dell’esistenza. Quando scopriamo che solo nella nostra povertà e nel nostro peccato possiamo fare esperienza della salvezza, e che solo perché tenebra possiamo essere raggiunti dalla sua luce scoprendoci finalmente figli amati, e umanità illuminata.