OMELIA 5a Domenica di Pasqua. Anno B

«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15, 1-8)

 

 

Dio ha un sogno su di me: che io porti frutto, che la mia vita conosca fecondità.

Sì, perché esiste anche la tremenda possibilità di fallire la vita in una triste sterilità.

La nostra storia personale sta tutta dunque in questo compito: fruttificare, maturare, diventare ciò che possiamo essere.

Il primo comandamento di Dio nella Bibbia è proprio: “Siate fecondi” (Gn 1, 22).

La vita è insomma un fecondare il proprio essere, venire alla luce di se stessi, un emergere dalla propria interiorità. Se vogliamo, un rinascere.

Chi rinuncerà a questo compito esistenziale, non conoscerà altro che la sterilità; la vita diverrà così legno secco, buono solo ad essere ridotto in cenere…

Una vita non fatta fiorire, è una vita ridotta in fumo.

 

Ma a questo punto una domanda: ma è umanamente possibile realizzare la propria rinascita?

Giovanni, nel Vangelo odierno, oltre a sottolineare il dovere del compimento del sé (in soli otto versetti torna sei volte il termine frutto), indica anche la possibilità perché questo possa avvenire: «Il tralcio non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me» (v. 4).

 

Rimanere”, ecco il segreto. In greco in realtà abbiamo ‘dimorare’, verbo molto caro a Giovanni. Ricordiamo i primi discepoli che chiedono a Gesù: “Maestro dove dimori?” (Gv 1, 38). Noi viviamo se abbiamo una casa; il nostro cuore si compirà quando troverà una dimora dove riposare, un terreno dove portare frutto. E l’uomo sta di casa solo laddove si sente amato.

Solo dimorando nell’Amore possiamo portare frutto, perché è lì che s’impara ad amare, ci si impregna dell’amore, si diventa simili all’Amore. Stando con l’Amato si impara a vivere come lui, si fanno propri i suoi gesti, i suoi sentimenti, la sua passione.

Stando immersi in questa linfa vitale, allora tutto ciò che diremo e faremo, tutto ciò che scaturirà dalla nostra vita sarà sigillata dal bene, sarà un’edificazione, una costruzione di sé che non potrà più conoscere la fine. Giovanni continua scrivendo:“Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà  fatto” (v. 7).

 

Dimorare il Lui, significa concretamente, accogliere la sua Parola, vivere secondo il suo Vangelo.

Ora possiamo forse comprendere ciò che Gesù afferma: «Chiedete quel che volete, e vi sarà fatto» (v. 7). Se la mia vita si è modellata sul Vangelo, si è ‘informata’ dello stile di Gesù, allora va da sé che ogni cosa che chiederò, coinciderà con quello che Dio vuole donarmi. Non potrò chiedere altro se non ciò che Dio vuole realizzare nel mondo e in me: siamo ormai una stessa medesima volontà. I suoi sogni son diventati i miei: ciò che chiedo, Dio lo può fare e accade ciò che Dio desidera.

 

Dimorando in Lui, immersi nella sua linfa vitale, fecondiamo la nostra stessa vita, cresciamo “fino al punto in cui l’uomo è Dio in Dio e Dio è tutto in tutto l’uomo” (Giovanni Taulero). È ciò che Gesù dice in Matteo: «Cercate prima il regno di Dio… e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (6, 33).

Perché le nostre attività esteriori possano acquisire un senso, una portata di fecondità, occorre che scaturiscano proprio dal nostro centro più intimo, laddove Dio ha posto la sua presenza, il suo Regno: «Dio è al centro della nostra anima» (s. Teresa).

La preghiera fatta di silenzio e pace, ci riporta a questo nostro centro sacro, là riposeremo e immersi nella forza vitale di Dio stesso raccoglieremo conseguentemente il frutto delle opere nel nostro quotidiano, che avrà il sapore di sovrabbondanza.

 

Il cristianesimo, in ultima analisi, non è una questione morale, un affaticarsi nel fare o non fare. Ma essere luce o non essere luce. E luce divento se incorporo la luce (cfr. Gv 8, 12; Mt 5, 14). Come la nuda zolla di terra diventa fiore non facendo o non facendo, ma semplicemente incorporando la luce: «Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano» (Lc 12, 27).

Non è questione di essere buoni o cattivi nella vita, ma piuttosto di lasciarsi raggiungere dall’amore o meno. Infatti la luce di Dio – il suo amore – si riversa in egual misura suoi buoni e sui cattivi (cfr. Mt 5, 45) e alla sua ‘festa’ entrano tutti, buoni e cattivi (cfr. Mt 22, 10). Scopo della vita sarà dunque ricevere il sole di Dio per essere trasformati in sole e così maturare, compiersi per diventare, alla fine, come Dio stesso che – il solo buono – può solamente amare.