OMELIA Ascensione del Signore anno A

Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

«Dal giorno dell’ascensione noi abbiamo un Dio in agguato ad ogni angolo di strada» (François Mauriac).

Nella festa dell’Ascensione, la liturgia ci propone un passo del Vangelo secondo Matteo, e precisamente la finale del suo scritto. È curiosa questa scelta, in quanto Matteo è l’unico tra i sinottici a non raccontare l’episodio dell’Ascensione di Gesù. Eppure – come vedremo – è questo un testo che, forse più degli altri racconti dell’Ascensione, dice il significato profondo del mistero.

Siamo alla conclusione dell’avventura terrena di Gesù e proprio a questo punto comincia l’avventura cristiana. Le ultime parole di Gesù ai suoi, riportate da Matteo suonano così: «Io sono con voi…» (v. 20). Con Gesù, Dio è passato dall’essere l’”Io sono” dell’Esodo (Es 3, 14), all’”Io sono con voi” del Vangelo. Per sempre.

In questo brano abbiamo Gesù con i suoi che, come Matteo s’appresta a ricordarci, sono in undici (v. 16). Alla fine, dopo che Gesù ha dato la sua vita per amore, dopo che ha sconfitto la morte, dopo aver riportato la vittoria dell’amore, la sua comunità è di undici. Uno ha tradito e s’è estromesso volontariamente dalla compagnia di Cristo rifiutando l’amore donatogli. È molto consolante questo loro essere rimasti in undici. Perché, malgrado la salvezza apportata da Cristo attraverso l’amore manifestato, la comunità di Gesù è – e sarà sempre – mancante. Non è, e non sarà mai ‘perfetta’ come la potremmo immaginare noi. Noi discepoli, noi Chiesa, noi uomini e donne siamo così come siamo, e la cosa straordinaria è che continuiamo ad essere amati da Dio proprio così; la fedeltà di Dio si manifesterà per sempre proprio a questi discepoli incompleti, infedeli e poveri. E tutto questo proprio perché son così, e non perché hanno mostrato doti particolari o prestazioni morali eccezionali.

E questa Chiesa di poveri è formata da discepoli (v. 16) e non da apostoli.
La parola discepolo deriva da dĭscere = imparare; egli è perciò colui che non si sente mai arrivato, colui che indaga sempre la verità, che si scopre sempre povero e necessitante di essere arricchito e istruito. Questi è il sapiente nella Bibbia, colui che è in ricerca, che fa domande, che sa di non sapere e si pone nell’atteggiamento d’imparare da tutto e da tutti. Contrariamente nella Bibbia lo stolto è chi sa di sapere tutto, chi non può più essere raggiunto perché ha già le sue strutture costituite. E si atteggia da maestro.

Questi discepoli si recano in Galilea (v. 16), termine tecnico nel Vangelo per indicare il luogo del quotidiano, delle relazioni, della fatica del vivere. Ecco dove avviene e avverrà sempre l’incontro col Signore risorto: nella quotidianità della vita, nell’incontro con la differenza dell’altro, con l’incontro tra volti: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea; là mi vedranno» (Mt, 28, 10). E questo perché il Signore è il Figlio del Padre e lo si incontra solo nei fratelli.
Ma non basta andare nella Galilea delle genti per fare esperienza di Cristo, occorre salire sul monte che Gesù aveva loro indicato (v. 16).
In Matteo quando si parla di monte si indica sempre quello delle beatitudini dove ha detto la Parola e ha lasciato la sua Parola, il significato profondo del Vangelo (Mt 5, 1ss.). Per cui il Signore lo incontrerò ogni volta che ascolto la sua Parola, il Vangelo, quando mi viene svelata la verità su Dio, su me stesso e sugli altri. Io so finalmente chi è Lui, chi sono io e chi è l’altro: un fratello.
E questa Parola ascoltata, diventa mia, diviene carne nella mia vita di ogni giorno, diventa mio volto, il mio modo di essere, di pensare, di agire. Ho ascoltato il Figlio son diventato figlio. E in questo modo posso farmi fratello: è questa l’esperienza di Dio che ci è data e che Gesù è venuto a portarci attraverso la sua Parola.

Infatti è proprio su questo monte che i suoi videro Gesù (v. 17). Un vederlo che si trasforma in adorazione (si prostrarono), unico atteggiamento veramente degno dell’uomo. Un animale non potrà mai adorare.
E in questo momento di massima unione, di completezza, di desideri colmati, al termine di una compagnia durata anni, l’evangelista ci informa che «essi però dubitavano» (v. 17). È bellissima questa annotazione. Anche nell’esperienza apparentemente più alta della fede c’è – e ci deve essere – spazio per il dubbio. La fede è atto di fiducia, di affidamento scaturito dall’amore ricevuto. E l’amore per definizione lascia libero, l’amore è sempre libera adesione, e non potrà mai scadere in costrizione. Se Dio costringesse a credere, cesserebbe di essere Dio. Il dubbio della fede non è un ostacolo ma possibilità perché questa possa maturare sino alla pienezza. Una fede che non passa al vaglio del dubbio, non sarà mai una fede seria.

Ora i discepoli fanno esperienza di Gesù, ma soprattutto comprendono cos’è il vero potere che è in grado di assicurare la vita. Gesù afferma di avere ricevuto in mano «ogni potere in cielo e sulla terra» (v. 18). Ma di quale potere si tratta? L’unico possibile a Dio: quello della misericordia, del perdono, di lavare i piedi ai discepoli e di dare il boccone a Giuda, ovvero di amare il nemico. Ed è lo stesso potere che possiede il Padre che sta nei cieli e che Gesù ha sempre esercitato sulla terra.

L’incontro con Cristo nella Parola, il lasciarsi raggiungere dal Vangelo (vivere la logica evangelica) muove necessariamente alla missione. Dall’ascolto all’opera, dal Vangelo agli Atti. Fatta la scoperta che Dio è Padre amante, che io sono figlio amato, l’altro sarà necessariamente fratello da amare, come lo ama il Padre comune. Raggiunti dalla Parola si testimonia fattivamente questa Parola, si vive l’essere divenuti Vangelo vivente. E lo si testimonierà con un certo stile di vita, ovvero da figli, e con la certezza che è l’unica modalità in grado di portare frutto, e l’unica che apparirà bella, affascinante, e in quanto tale in grado di catturare, e di creare sequela, e pensare che meriti giocarsi una vita in questo modo.
Questa è la missione della Chiesa: testimoniare con la vita la bellezza di vivere uno stile di vita diverso, ‘altro’, luminoso, bello. E questa testimonianza dell’amore fattivo vuol dire immergere l’altro in questa medesima esperienza, inondarlo di questo amore: questo è il significato originario di battezzare: «Battezzandoli…» (v. 19). Si battezza l’altro ogni volta che lo si immerge nell’amore con cui lo si sta amando, facendogli fare esperienza di cosa vuol dire essere amato: vi è un Padre che ama attraverso il proprio Figlio, e il frutto di questo amore che è lo Spirito Santo, ora diventa parte dell’amato.
Questo raggiungere l’altro con l’amore è assolvere alla richiesta di Gesù: «insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (v. 20). Gesù non ci ha comandato altro che di amarci a vicenda (Gv 15, 14). Ora non vi è altro modo di insegnare ai fratelli il comando dell’amore che amandoli sino alla fine. S’impara ad amare per via di esperienza.

Ecco che alla fine Gesù, al momento di lasciarci, esce con questa splendida parola: «io sono con voi» (v. 20b). Dio è “complemento di compagnia”.
Il lasciarci di Gesù è la sua presenza “in noi”. Stiamo attenti, non dice «con te», ma «con voi», come a dire sarò con/in voi solo nel momento in cui vi amerete da fratelli, Sono con/in voi nel vostro amarvi vicendevolmente; mi scorgerete nel volto dei fratelli amati e nel vostro che si è rivolto a quello del fratello: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

E Dio rimarrà in noi per sempre, «fino alla fine del mondo», fino al compimento della storia e non sino alla sua distruzione. Perché il mondo sta andando verso un fine, che è l’abbraccio del Padre, e non verso la fine come dissoluzione del tutto.
Se si sale sul monte e si ascolta la Parola; se questa Parola diventa mia carne e mio sangue allora sono abilitato all’amore; se amo con lo stesso amore del Padre che è misericordia e perdono, allora sarò in grado di salvare il mondo dalla dissoluzione e da una fine tragica.
Se vivremo con uno stile di vita ‘altro’, divino, allora sperimenteremo il mondo andare verso un compimento di bene, verso la sua piena realizzazione.