OMELIA Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Quest’anno, il due novembre cade di domenica. Per questo oggi si celebra la commemorazione di tutti i fedeli defunti.

In questo giorno, e un po’ prima e un po’ dopo, si compie il mesto pellegrinaggio nel ‘luogo dei morti’, rito di cui noi poveri mortali abbiamo bisogno da sempre, ovvero da quando ci siamo resi conto di essere umani. Anzi,  proprio questi riti di cura e di memoria di chi ci ha lasciato, ci hanno permesso di diventare pienamente umani. Si tratta della visita intorno alle tombe dei nostri cari defunti, la visita ai campi considerati ‘santi’, cura del luogo dell’eterno riposo; del cimitero, bella parola e di grande serenità, data la sua origine greca che significa proprio: luogo dove si va a dormire.

Da quando gli esseri viventi cominciarono a diventare umani, prendendosi cura proprio dei più fragili, dei più deboli sino ad avvolgere di cure amorevoli i loro simili giunti alla fragilità e povertà estrema ovvero alla morte, il defunto veniva soprattutto  posato dentro la madre terra. Inumato, si dice. Da qui la parola umano: essere destinato all’humus, alla terra.

Quella è la nostra destinazione.

Venuti dalla terra, saremo riposti nella terra. Perché umani appunto.

 

È prezioso e bello il gesto di porre – almeno simbolicamente – le spoglie mortali dell’amato dentro il cuore della terra. È il medesimo gesto che il contadino da sempre compie con la semina, affinché dopo il lungo inverno, possa tornare a goderne vita. Ciò che non viene seminato non porta frutto.

Il seme per quanto prezioso, deve conoscere l’esperienza della nuda e fredda terra; il silenzio dell’inverno, il morire e il marcire. Ma tutto questo è condizione perché a primavera la vita possa nuovamente spuntare e ciò che era solo in potenza, in nuce in quella zolla di terra tenebrosa, possa sbocciare in tutto il suo splendore e in tutta la sua verità.

 

L’affidare alla terra le spoglie mortali della persona amata, è perpetuare il gesto antico quanto il mondo, del contadino. Noi veniamo alla luce come semi, che la lunghezza della vita contribuirà a portare lentamente a compimento, a diventare ciò che eravamo chiamati a essere, a far sbocciare la verità insita in noi. Ma una vita non basta a compierci, a farci diventare perfetti, ovvero maturi. Perché per quanto l’amore ci abbia permesso di maturare, di edificarci secondo la nostra personale vocazione, in questa vita non arriveremo mai a configurarci ad immagine e somiglianza di quell’Amore da cui scaturiamo e a cui tutti tendiamo.

I limiti, le fragilità, il male, la nostra storia fatta di smacchi, di malattie, di ombre, di fallimenti impediscono di compierci «fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4, 13). Siamo esseri fatti per amare, e sappiamo che solo l’amore può compierci, ma questo amore in noi sarà sempre inficiato da tempo e spazio. L’amore invece ha bisogno di spazi e tempi infiniti per poter dare il meglio di sé, semplicemente perché esso stesso è infinito.

Ecco allora che come il seme una volta seminato conoscerà attraverso la sua morte il suo compimento vero e pieno, ovvero diverrà ciò che doveva diventare, così la nostra morte sarà l’evento deflagrante perché noi possiamo diventare pienamente noi stessi. Occorre morire per nascere veramente.

E tutto ciò che in questa terra l’amata creatura avrà potuto donare, trasmettere, comunicare – che per quanto grande non sarà mai immenso – attraverso la morte conoscerà l’incommensurabile, il compimento massimo e definitivo.

La vita che è diventata tale attraverso la nascita, ora necessita della morte per giungere a compimento. Perché la morte non è il contrario della vita ma della nascita.

 

Se a edificarci in vita è stato l’amore, che per quanto grande non ha condotto comunque al compimento, la morte sarà la porta perché il fiume dell’amore umano possa confluire nel mare infinito dell’amore divino. E allora lì, non confusi ma in comunione con l’Infinito Amante, i nostri cari defunti possono finalmente amare di quell’amore che qui in terra, in limitati spazi e in un insufficiente tempo, è stato sempre un ombra della loro reale possibilità.

Ora essi non sono a godere di un ‘eterno riposo’, ma impegnati in un’infinita attività, in quanto amano noi gli amati, nell’amore stesso di Dio. I nostri morti ci stanno amando nell’amore di Dio.

Dobbiamo credere che la persona al di là della morte acquisisce una modalità di presenza, di vicinanza, di azione e di aiuto nel bene a nostro favore, infinitamente maggiore di ciò che poteva operare al di qua di quella porta. I nostri morti ci sono accanto come amanti e partecipi delle nostre povere storie umane, come ci è presente il Dio con noi, perché sono semplicemente in Lui.

Questo si chiama comunione dei santi. La comunità dei nostri morti è parte integrante della comunità di noi vivi. È per questo che per secoli i cimiteri son stati costruiti a fianco delle chiese, laddove i viventi celebravano il mistero della risurrezione.

 

La leggera membrana che ci separa è solo data dalla nostra finitudine, che fa della nostra vista un senso imperfetto impedendoci di vederli accanto, del nostro udito un senso sordo alle parole di amore che continuano a rivolgerci, del nostro tatto una mano che può solo accontentarsi di accarezzare una fotografia su di un freddo marmo.

Ma il fiore, semplice sacramento della luce – compimento ultimo del seme morto –  che si va a posare sui marmi tombali, è presagio e lieta speranza che alla fine questo velo cadrà, e ci potremo nuovamente abbracciare di un abbraccio che ci farà dimenticare di essere stati per così lungo tempo lontani.