Mt 3, 1-12
Strana e spiazzante la figura di Giovanni Battista. Avrebbe dovuto ereditare il mestiere del padre, Zaccaria, sacerdote del Tempio. Una vocazione trasmessa per stirpe, come si fa con le terre e i cognomi. E invece no. Giovanni spezza la genealogia sacra. Tradisce il Tempio. Forse per non ripetere la vita del padre che pur irreprensibile davanti a Dio, – annota Luca con un’ironia sottile e crudele – è stato per una vita sterile. La giustizia, quando è solo osservanza, non genera vita.
Giovanni, dunque, si pone fuori dal recinto sacro. Abbandona liturgie, sacrifici, animali sgozzati, sangue versato, fumo d’incenso che sale come alibi religioso. Se ne va nel deserto. Sceglie una vita ridotta all’osso, essenziale come la roccia. Veste di peli di cammello, si nutre di locuste e miele selvatico. Non è folclore, ma teologia incarnata. La sua vita diventa messaggio prima ancora delle sue parole.
Giovanni non parla, lui grida. Nel deserto geografico ed esistenziale alza una voce, perché è il tempo non di delicate consolazioni, ma di risvegliare le coscienze. Avverte che il tempo si è fatto breve, che non c’è più spazio per i rinvii, per gli equivoci, per i compromessi. È ora di tornare all’essenziale. Alla verità nuda.
Giovanni non “predica”, parola addomesticata, acqua sui vetri, egli proclama. La sua è una parola che incide, che ferisce, che lascia un segno. E non fa sconti a nessuno. Davanti a lui cadono le distinzioni di rango: potere religioso o civile, poco importa. Grida anche al re. Grida contro Erode. Per questo sarà messo a tacere. La verità detta in faccia al potente costa sempre la testa.
A chi pensa che Dio sia rinchiuso in un luogo, amministrato da una casta, addomesticato da rituali, gestito da un’élite – naturalmente tutta maschile – Giovanni dice no. Con lui la presenza di Dio emigra dal Tempio alla coscienza. Dal perimetro sacro al cuore dell’uomo. Il luogo più santo non è più l’altare: è l’interiorità.
Per questo Giovanni chiede la conversione. Metanoia. Cambio di testa, di sguardo, di mentalità. Non una verniciata morale, ma uno spostamento radicale del centro. La coscienza diventa il vero santuario. È lì che accade l’incontro con Dio.
I sacrifici non hanno mai salvato nessuno. Tantomeno una religione autoreferenziale, autocelebrativa, costruita su certezze di pietra, giocata sul baratto sacro: io ti do, tu mi dai. Una religione fondata sul merito. Ai religiosi devoti, sicuri della propria appartenenza, Giovanni grida parole che bruciano: «Non crediate di poter dire: abbiamo Abramo per padre. Dio può far sorgere figli di Abramo anche da queste pietre». Nessun pedigree salva. Nessuna appartenenza garantisce.
Gli studiosi discutono se Gesù di Nazareth sia stato discepolo del Battista. Forse sì, forse no. Di certo ne ha respirato il fuoco. Di certo ne ha raccolto l’eredità profetica. Gesù, quando entra nel Tempio, non offre sacrifici: guarisce. Non brucia incenso: insegna. E quando parla dei professionisti del sacro, le sue parole sono ancora più taglienti. Se Giovanni li chiama «razza di vipere», Gesù li definisce «ipocriti, sepolcri imbiancati, serpenti, razza di vipere» (cfr. Mt 23). E del Tempio dirà che è diventato un «covo di ladri» (Mc 11,17).
Poi compie lo spostamento decisivo: invita a rientrare dentro di sé. È lì che abita il Regno di Dio, il punto luminoso dell’intero universo (cfr. Lc 17,21). Non fuori, non nei recinti del sacro, ma nel silenzio abitato dell’interiorità. Ed è lì che torna a risuonare la voce antica dei profeti: «Misericordia io voglio, non sacrifici. La conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6). Giovanni è il profeta della soglia. L’ultimo della religione dei sacrifici. Il primo dell’epoca della coscienza. Una voce che grida per dirci che Dio non abita più nel sangue versato degli animali, ma nel cuore che si lascia ferire dalla verità.
