OMELIA II domenica di Quaresima. Anno C

«Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte
a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e
sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano
oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con
lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto». (Lc 9, 28b-36)
A metà della sua avventura terrena, Gesù ci lascia una fondamentale verità sull’esistenza: tutto è trasformazione. Questa è la legge della vita: il seme diventa pianta, il bruco farfalla, la materia energia. Tutto è ‘impermanenza’, tutto è sotto l’egida del cambiamento, e quindi promessa ultima di compimento. Crescessimo in consapevolezza, percepiremmo che tutto ciò che accade è ‘adorabile’, perché a favore del mio compimento, finanche quanto pare essere ‘contro’ e ‘fallimentare’.
Il nostro compimento non sta nella ‘riuscita’, e nemmeno nella speranza che qualcosa possa ancora accadere, o raggiungerci dall’esterno, ma nel vivere in pienezza il momento presente. La salvezza non sta dinanzi, ma in profondità.
Questo attimo, questa giornata, questa mia vita è gravida di promessa eterna. L’essenziale sta perciò nell’aprirsi a ciò che è, a questa situazione particolare soprattutto se non ci è data di cambiarla, per quanto segnata dal male e dalla sofferenza, e poi abbandonarsi, ‘mollare la presa’, af-fidarsi. Solo allora comincerà per noi la vera trasformazione.
“Muori e divieni” ebbe a dire Goethe. Morire al proprio piccolo io per sperimentare il Dio che matura in noi. E poi dargli credito, lasciarlo agire, lasciarsi dilatare e compiere.
Il Vangelo di oggi ci riconcilia con i nostri fallimenti e i nostri naufragi esistenziali. Vivere fino in fondo il dolore e il fallimento, le nostre morti quotidiane è premessa perché qualcosa di nuovo possa nascere. Spesso è il medesimo veleno maligno che ci ha feriti a morte a rivelarsi migliore antidoto per la guarigione.
La sapienza della vita, insegnataci da Gesù, sta proprio qui: riconoscere nel naufragio della propria vita, non la fine e la sconfitta, ma opportunità di rinascita a vita nuova. Gesù è l’esempio eclatante dell’uomo fallito, che nella prova disarmante di un abbandono totale, ha esperito il cominciamento di una vita nuova e per sempre.
Siamo tutti impegnati nel nostro venire continuamente alla luce di noi stessi.
Nessuno ama naufragare, si sa, ma sappiamo anche che spesso questo si rivela come unica possibilità di approdare su terre sconosciute e cominciare una vita nuova. Sperimentare che la propria vita va in frantumi può rivelarsi una grazia, quando a sfasciarsi sono i sogni su cui abbiamo costruito la vita, oppure i desideri e le attese che gli altri hanno riversato su di noi.
La crisi è quindi rivelazione del nostro vero io, trasfigurazione appunto di ciò che siamo veramente e non di ciò che gli altri desideravano per noi.
La croce, ha rappresentato la frantumazione nei discepoli dell’immagine che si erano creati su Cristo e su Dio. Tutto dinanzi alla croce è crollato, anche la percezione di Gesù del suo Dio, sperimentando una solitudine infinita. Sulla croce Cristo ha ‘mollato la presa’. I chiodi gli hanno permesso di aprire la mano in un abbandono totale, per poi sentirsela afferrare finalmente da un amore fedele ed essere
così riportato a casa e questa volta per sempre.