OMELIA IV domenica del Tempo di Pasqua. Anno C

Gv 10, 27-30
«Tuffarci in fondo all’abisso,
sia Inferno o Cielo, che importa?
Per trovare qualcosa di nuovo
nel grembo dell’Ignoto» (C. Baudelaire, Il viaggio).
Le rivoluzioni, intese come apportatrici di novità, si son sempre dimostrate pericolose. Voler modificare la realtà imponendo la nostra idea, le nostre personalissime letture, alla lunga si rivelerà nocivo, provocando qualcosa di peggiore di ciò che si desiderava cambiare.
Gesù di Nazareth non è stato un rivoluzionario; egli ha piuttosto inteso avviare una sorta riforma, che è qualcosa di profondamente diverso dalla rivoluzione. Tutti ricorderemo quel passaggio in cui Gesù afferma: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5, 17).
Gesù non ha mandato all’aria il pregresso, ma ha preso questo e ci ha gettato dentro un po’ di lievito (cfr. Gv 13, 33). La pasta – la realtà, la storia – è sempre la medesima, ma ciò che fa la differenza è come l’abitiamo, come la trattiamo, come ci stiamo dentro: se come lievito di luce che trasforma le tenebre, o con un atteggiamento egoico che spegnerà anche il lucignolo fumigante (cfr. Mt 12, 20).
«La felicità è amare ciò che si ha», dice Agostino, e non desiderare sempre qualcosa di nuovo. Amare ciò che si ha significa ‘insistere’ – letteralmente stare con ostinazione – sulla realtà, senza perdersi in sogni o sterili fantasie. Per questo Jacques Lacan dice che la parola più alta dell’amore è ‘ancora’.
Se il cambiamento impone di passare da un oggetto all’altro, per poi sperimentare magari a sera che è già vecchio, l’amore reclama lo sforzo titanico dell’approfondire, di stare, di scendere in profondità, per poi dire ‘oggi guardo ancora il tuo volto, e anche se è sempre il medesimo, non mi stanco perché è profondo come l’infinito’.
Stiamo morendo di superficialità.
Ci si stanca presto di tutto, confondendo vita con vitalità. Ci accontentiamo della spuma del mare, quando lo splendore è racchiuso negli abissi.
Gesù ha amato in questo senso. Non ha cambiato nulla ma trasformato tutto, cominciando con l’acqua in vino alle nozze di Cana, per finire con la morte. Non ha sostituito la morte con una vita biologica senza fine, l’ha attraversata, e attraversandola l’ha trasfigurata in vita d’una qualità così alta in grado di superare anche la morte.
Le sue pecore, per le quali darà la vita, sono quelle di sempre: testarde, fragili, paurose; infatti queste lo tradiranno, lo rinnegheranno e l’abbandoneranno. Ma lui insiste, sta ancora con loro, un altro giorno, e un’altra notte ancora. L’amore non abbandona, sta.
Ecco cosa fa l’amore: rende eterno ciò che ama.
Ma che significa ‘rendere eterno’ qualcosa? Dargli compimento, condurlo a fiorire.
L’amore sottrae a quella data realtà il tarlo della morte; lo salva dal disfacimento, dalla dimenticanza.
“Dire ti amo significa dire: tu non morirai” ci ricorda Gabriel Marcel.
Per questo che coloro che amiamo non li perderemo mai. È il nostro amore a renderli ‘per sempre’.
Gesù sta con i suoi, e ci starà anche quando questi non staranno più con lui. Ci starà anche quando la sua amicizia verrà tradita e quando i suoi coltiveranno pensieri di morte contro di lui. E qui l’insegnamento è grande: avere fede non significa credere in un Dio, quanto credere che c’è un Amore che si fiderà ancora di me, non malgrado tutto ma attraverso tutto: senza se e senza ma.
L’amore è cosa strana, più lo si dona, più aumenta. Non s’impoveriranno mai d’amore coloro che amano. Anzi, ne acquisiranno sempre di più. Ce lo ricorda Shakespeare quando in ‘Romeo e Giulietta’ mette in bocca a quest’ultima queste parole: «Più ti do più ho».