OMELIA IV domenica di Quaresima. Anno C

«1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola: Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». (Lc 15, 1-3. 11-32)
Una vecchia pedagogia, riteneva che l’obiettivo dell’educazione consistesse nel ‘raddrizzare i chiodi storti’. Vedeva i figli, gli studenti, i giovani, i sudditi, ‘chiodi da raddrizzare’, qualcosa da rimettere in riga, da far ‘rientrare’ in schematismi preordinati, collaudati, in pensieri standardizzati; occorreva insomma intrappolare le persone ritenute ribelli – ma in realtà soltanto libere – in una morale del ‘è giusto così’, ‘si deve far così’, del ‘si è sempre fatto così’. La cosa grave è che si è proiettato questa idea anche sul ‘grande pedagogo’ che taluni chiamano Dio.
Ma il Vangelo di oggi ci rivela la bella notizia, ossia che il nostro Dio ama proprio i chiodi storti. Ama le storture, le storie sbagliate, gli uomini usciti di strada, gli imbrattati nel brago dei porci.
La felicità di Dio non sta nell’avere davanti a sé donne e uomini puri dalle morali immacolate. Il Dio del Vangelo è il Padre che impazza di gioia -e ritiene per questo doveroso far festa (v. 32)- perché finalmente può rivelare ai suoi figli di che stoffa è fatto, qual è la sua autentica sostanza.
La gioia di Dio non sta nel comportamento del figlio, ma che questi sperimenti qual è il suo comportamento di Padre: «questa è la vita eterna [ossia la felicità piena] che conoscano te», dice Gesù rivolgendosi al Padre (Gv 17, 3). Conoscere – e quindi sperimentare nella carne – chi è Dio per me, questo è cristianesimo. Abbiamo identificato la salvezza con un ‘migliorismo’ morale. Abbiamo ridotto il sacramento della riconciliazione in un’accusa tra ‘ciò che avrei dovuto essere e fare’ e ciò che invece mi trovo a vivere. Quando il Vangelo mi ricorda che la salvezza consiste solo nel perdersi nell’abbraccio di un Amore che versa su di me quel balsamo che guarisce le ferite che mi sono inferto da solo aprendomi a un futuro di fecondità. Solo questo abbraccio produrrà vita, gioia, trasformazione interiore, mentre l’accusa continua (e frustrante) del dislivello tra il dovuto e la realtà delle nostre miserie, genererà solo sensi di colpa e tristezza mortale.
Dio non nutre aspettative su di noi, perché l’amore non s’aspetta nulla dall’amato, come un buon genitore non dovrebbe attendersi nulla dai figli, amandoli solo in quanto figli. «Il vero amore per i figli dev’essere a favore dei figli, svincolato da qualsiasi aspettativa nei loro confronti. Questa è una debolezza dei genitori: la si potrebbe definire il loro destino» (Etti Hillesum, Diario).
«Questo tuo fratello era morto» (v. 32) dice il Padre al fratello maggiore.
Ma ora è tornato a vivere, perché perdonato.
Io personalmente, non ho esperienza di risurrezione. Posso crederci per fede, ma non ho mai visto cadaveri ritornati in vita, e mi pare che la storia non ne contempli – e comunque non m’interessa.
Credo fermamente però, che il perdono abbia il potere di far tornare in vita una persona la cui colpa, il male, lo sbaglio commesso ha fatto precipitare in un gorgo infernale.
Perdonare, come lascia intuire il padre in questa parabola, non significa né amnistia né amnesia, ma possibilità donata perché l’altro ricominci a vivere, aprendo così a un futuro che ha il sapore della rinascita. Perdonare significa concedere all’altro il miracolo di ricominciare, avere in sé quel fuoco divino in grado di concedergli la possibilità di rialzarsi dalle proprie ceneri, per poi sperimentare che il primo a volare sono proprio io.