OMELIA Solennità di Pentecoste. Anno C

«15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. 25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». (Gv 14, 15-16.23b-26)
Nella prima lettura di oggi leggiamo: «tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2, 4).
L’uomo che entra in contatto con lo Spirito – la vita di Dio in sé – parla finalmente “altre lingue”, ossia ‘la propria lingua’, esprime quella che è la sua verità profonda, il suo vero essere smettendola così di corrispondere ad attese di altri recitando parti che non gli competono. Detto in altre parole, lo Spirito presente in ciascuno, manifesta la verità della persona attraverso il dettame della propria coscienza.
«Fare appello allo Spirito Santo vuol dire fare appello alla libertà della coscienza perché la punta alta della coscienza è la punta alta su cui batte il raggio dello Spirito. Per questo lo zelo delle istituzioni è nel coprire tutte le punte perché non appena la coscienza si illumina si scompagina un ordine esistente e il futuro irrompe. Ecco perché le istituzioni sacre hanno perseguitato i profeti; esse li hanno temuti, a cominciare da Gesù» (Ernesto Balducci).
Quanta verità in queste parole.
Ogni istituzione, religiosa o civile che sia, ha sempre avuto paura che le persone agissero ‘secondo coscienza’. La storia ci insegna che si è spesso preferito persone ‘mute’ e obbedienti all’autorità, qualunque fosse. Si è preferito zittire le voci che non parlassero la ‘lingua di stato’ o quella della gerarchia, quelle non allineate al dettame dei codici, delle regole, del ‘è bene così’ o del ‘s’è sempre fatto così’.
Ogni sistema di potere ha sempre prediletto che i propri sudditi parlassero tutti la medesima lingua – quella del ‘capo’ – nella speranza che ciascuno agisse allo stesso modo.
Ogni potere lavorerà sempre per ottenere uomini schiavi e muti, piuttosto che persone libere e in grado di esprimersi, per non destabilizzare l’ordine costituito.
Lo Spirito di Dio – insegna Gesù – soffia dove vuole non dove si vuole che soffi, fa parlare ciascuno la sua propria lingua, fa essere ciascuno pienamente sé stesso attraverso l’esercizio della propria coscienza.
Nel vangelo Gesù guarisce molte persone mute. Son tutte quelle donne e uomini da sempre zittiti perché non allineati e obbedienti all’establishment di turno. Zittiti da genitori, educatori, poteri religiosi, cultura dominante in quanto ritenuti non interessanti, se non banali, nelle loro espressioni. Gesù quando parlava con le persone deve aver avuto quella meravigliosa capacità di infondere in loro la fiducia di aprir finalmente bocca, di convincerli che anche loro avevano qualcosa di bello e di vero da dire.
Lo Spirito di Dio soffia, sempre, e comunque. E crea unità in un’umanità formata da genti diverse, religioni diverse, da una razionalità laica e dall’opera di un ateismo serio e intelligente. Ciascuno è portatore di verità, di bellezza e fecondità. Il nostro compito di cristiani non sarà far sì che le varie ‘lingue’ degli uomini accettino il primato della nostra – perché ritenuta l’unica vera e indefettibile – ma fare in modo che la ricchezza e la fecondità di ogni diversità possibile si volga verso un orizzonte di bene, ad un futuro di compimento che è la costruzione di un mondo diverso, di un’umanità che finalmente viva una logica della pace, della misericordia e della condivisione.