Lc 10, 25-37
Un pio religioso si avvicina a Gesù e gli pone una domanda apparentemente semplice: «Chi è il mio prossimo da amare?» (Lc 10,29). Domanda retorica. Ogni buon ebreo conosce la Legge e quindi la risposta. Il Levitico a proposito è chiaro: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18), identificando col prossimo il familiare, il parente, il “vicino”, l’amico, il connazionale. Non certo il diverso e lo straniero.
Gesù spezza lo schema. Non risponde con una definizione, ma con una narrazione, con un gesto, con un rovesciamento: la parabola del buon samaritano. E così, con radicale semplicità, cambia la domanda: non “chi è il mio prossimo?” ma “a chi posso io farmi prossimo?”
Come se ci dicesse: non domandarti chi è da amare, ma disponiti a diventare tu risposta per chiunque chieda amore. È qui che inizia il cristianesimo.
L’amore autentico non nasce da una strategia morale, da una selezione ponderata, da un criterio di reciprocità. Non dice: “mi prenderò cura di lui perché se lo merita” o “perché la pensa come me”. No. L’amore, come dice Simone Weil, “è attenzione pura”. È una risposta che precede il giudizio. È la gratuità che sconfigge la logica della reciprocità.
Gesù racconta di un uomo mezzo morto ai bordi della strada. Gli passano accanto un sacerdote e un levita: figure religiose, osservanti, rispettabili. Ma tirano dritto. Toccare il sangue gli avrebbero resi impuri e reso vano il loro servizio al Tempio. Giunge infine un samaritano, per l’establishment religioso un eretico e uno scomunicato. E questi si ferma. Sì, perché l’amore comincia proprio col fermarsi.
Il samaritano, anonimo e senza titoli, diventa così figura del Cristo. E con lui viene inaugurata una nuova Torah, non più fatta di dieci comandamenti scolpiti nella pietra, ma di dieci verbi scolpiti nella carne: Lo vide/Ne ebbe compassione/Gli si fece vicino/Gli fasciò le ferite/Gli versò olio e vino/Lo caricò sulla cavalcatura/Lo portò in albergo/Si prese cura di lui/Pagò per lui/Ritornò da lui.
Questi dieci verbi non sono una morale. Sono una teofania, incarnano il medesimo volto di Dio. Gesù rompe così ogni forma di religione che serva solo a tracciare confini. Ai suoi occhi non conta il dogma, ma il gesto. Non l’appartenenza, ma la compassione. Non un ‘credo’ ma la fede, quella che – come dice Paolo – “opera per mezzo dell’amore” (Gal 5,6).
“Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e ho trovato tutti e tre.” (Proverbio sufi)
Essere cristiani in fondo non significa tanto sapere chi è Dio, ma saper riconoscere il grido dell’altro che diventa luogo d’incontro col divino.
Chi ama, anche senza sapere, sta già pregando. Chi si ferma, anche senza credere, è già sulla via del Regno.
“Non chiederti mai se l’altro merita il tuo amore. Chiediti piuttosto se tu sei disposto a farti prossimo.” (Ernesto Balducci)