Lc 10, 38-42
Gesù entra in casa, e Marta si dà da fare, di un fare che ha il sapore della routine, del dovere e che fa perdere di vista l’essenziale. L’unica cosa che rimane. L’amore – si sa – quando si fa abitudine, si svuota.
“L’amato che non sorprende più, è già perduto.” (Christian Bobin)
Maria – ossia l’altra postura esistenziale possibile – vive il momento come fosse unico, irripetibile. Non presume, non agisce, non cerca. Semplicemente sta, aprendosi così a ciò che è, perché in fondo la fede non consiste in un fare, ma nel lasciarsi raggiungere e toccare.
Se c’è un Dio questo si manifesterà sempre come “altro”. L’inatteso. Mai uguale, mai prevedibile. Ogni qual volta lo rinchiudiamo in concetti, formule, liturgie irrigidite, cessa d’essere il Vivente mutandosi in un idolo: un dio piccolo, piccolo, usato per giustificare violenze o imporre pesi insostenibili.
Maria dunque sceglie l’ascolto, e vivere una sorta di rinuncia. E noi sappiamo che nella vita spirituale rinunciare non è perdere qualcosa ma poter ricevere tutto. Lo Spirito, che “soffia dove vuole”, potrà trovare dimora solo in chi non pretende e non sa, perché quando pensiamo di avere Dio in tasca, di sapere come agirà, cosa vorrà, come parlerà, l’abbiamo già perduto. Chi invece si dispone come Maria — silenziosa, attenta, disponibile, accogliente — può riconoscerlo anche dove nessuno lo immaginerebbe.
Ciò che ci salva non è ciò che ci assomiglia, ma ciò che ci sfida, perché la vera ricchezza è sempre nella diversità.
Ospitare l’altro dunque — come ha fatto Abramo, come ha fatto Maria con la Parola — significa riconoscere che Dio non ci appartiene. È sempre un Oltre. È sempre Altro. Mistero. E “Il mistero – si sa – non si risolve. Si abita.” (Abraham Heschel)
Va da sé che l’esempio di Maria qui non è un invito alla passività, ma all’essenziale. A liberarci da tutto ciò che ci distrae, per restare, finalmente, in ascolto.
E forse, in questo silenzio, Dio tornerà a parlarci. Ma non sarà mai come ce lo saremmo aspettato.