OMELIA XVII domenica del Tempo Ordinario. Anno A

Mt 13, 44-52

Sotto l’azzurro fitto

del cielo qualche uccello di mare se ne va;

né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:

«più in là» (Eugenio Montale, Maestrale).

Qualunque cosa tu dica o faccia

c’è un grido dentro:

non è per questo, non è per questo!

(Clemente Rebora, Sacchi a terra per gli occhi).

Siamo cercatori di perle, di tesori perché abbiamo il presentimento del Vero, di ciò che – crediamo – sarebbe in grado di compierci il cuore. Siamo inquieti, palombari dello spirito, assetati di una bellezza in cui poter finalmente far riposare il cuore.

La cosa migliore che ci possa capitare è riuscire a distinguere nella vita ciò che conta da ciò che è superfluo, ciò che ha consistenza da ciò che è effimero, ciò che è essenziale da ciò che è solo necessario.

Scoperto il vero tesoro e la perla di grande valore, allora tutto il resto può essere abbandonato.

Il Vangelo ci svela in cosa consiste la perla e il tesoro di grande valore: l’Amore.

Fatta propria la logica dell’amore, viene vinta la logica del mondo incentrata sul potere l’avere e il successo. La luce dissolve la tenebra, in quanto il bene abbraccia il male sconfiggendolo. San Paolo, fatto esperienza dell’Amore, arriverà a considerare tutto ciò che fino ad allora gli sembrava essenziale e necessario per il suo compimento, semplicemente sterco: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura (lett = sterco), per guadagnare Cristo» (Fil 3, 8).

La terza parabola (vv. 47-50) del Vangelo di oggi ci aiuta poi a comprendere dove può condurre una vita che non arrivi a far propria questa logica dell’amore. Il risultato di non essersi giocati nel bene è simboleggiato qui dal “pesce cattivo”, inteso come guasto, fallito, inutile. Una vita spesa fuori dell’amore, è come essere gettati fuori dalla rete. Una vita guasta, fallita, non buona, a cosa può servire? Come la zizzania (Vangelo di domenica scorsa) verrà presa, e bruciata; semplicemente distrutta. I giusti, i buoni della parabola saranno invece coloro che hanno vissuto del medesimo amore che hanno ricevuto e sperimentato nella propria storia. E questa vita sarà conservata, come il grano che andò a finire nel granaio di Dio.  Ma occorre fare un passo ulteriore. La separazione non avviene tra due parti di umanità, i buoni e i cattivi, ma tra la parte di me che si è formata amando, e quella che si è distrutta attraverso il male compiuto.  

Quando il mondo, la storia giungerà a compimento, allora la Parola di Dio (gli angeli, v. 49b) mi giudicherà, ovvero distinguerà in me ciò che si è costruito nell’amore e ciò che ha fallito nel male. E l’amore di Dio che è fuoco divorante, distruggerà questo male, la parte di me che ha fallito nell’egoismo, nel potere, nell’incentramento sull’io. E rimarrà – ancora una volta – solo ciò che è bene.

In questo modo non ha avrà più senso domandarsi: ma allora se Dio salverà tutti (la rete che accoglie tutti) che bisogno c’è ancora di far qualcosa? Tanto son salvo, vivo come voglio! No, perché l’amore reclama la responsabilità. Dio ama tutti, perdona tutti e tutto, ma proprio per questo ora questo stesso amore che mi ha raggiunto, mi chiede di vivere, di spendermi secondo il medesimo amore riversandolo sui fratelli.

Si risponde all’Amore divenendo responsabili. Il resto è fallimento.