Lc 13, 22-30
Il dramma di un certo cristianesimo è credere che il compimento della vita – se vogliamo la salvezza – si raggiunga accumulando pratiche e meriti: l’ascolto della Parola proclamata «tu hai insegnato nelle nostre piazze» (v. 26b), la partecipazione all’eucaristia: «abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza» (v. 26), o una condotta morale irreprensibile, irrobustita da sacrifici e da sforzi.
Ma è proprio qui che Gesù spiazza. A chi crede tutto ciò egli dice: «Non so di dove siete. Allontanatevi da me» (Lc 13, 25.27). Come a dire: non è questa la via. La porta resta chiusa per chi pretende di bussare con le credenziali del proprio io.
Paradosso divino: saranno accolti alla mensa del Regno quelli che vengono da lontano, dagli orizzonti impuri e nemici — gli scartati, i dimenticati, coloro che la storia ha sempre marchiato come perduti. L’esperienza del compimento è ad appannaggio di chi non se l’è mai nemmeno immaginato.
È il perduto che si salva, non il giusto che si vanta.
Gesù ci chiede una rivoluzione dello sguardo: non è l’ego a conquistare il cielo. Non è lo sforzo a edificare la salvezza. Possiamo dire che è come dono che precede, grazia che avvolge, presenza che non si merita. Simone Weil lo disse con parole taglienti: «La grazia è senza sforzo».
Ogni logica del merito, ogni tentativo di comprarsi la salvezza, svuota la croce del suo senso. La croce non è premio, ma gratuità offerta ai ladroni di ogni tempo, a chi non ha nulla da esibire.
Ma allora, che cosa significa il grido di Gesù: «Lottate per entrare per la porta stretta» (Lc 13,24)? Non certo lottare per essere buoni, per meritare. Il testo greco parla di agōnízesthe: combattete. Ma contro che cosa? Contro le maschere religiose che ci avvolgono, contro l’illusione di essere dalla parte giusta, contro la presunzione dei meriti. È questa presunta ricchezza spirituale a impedirci di essere raggiunti dall’Amore.
La porta resta chiusa a chi vive come servo davanti a un Dio padrone; si spalanca invece a chi riconosce di essere povero, smarrito, ferito. Perché è da quella ferita che scorre il fiume della misericordia.
Eppure, non si tratta di un quietismo passivo, di attendere con inerzia che un dio venga a salvarci. No. Per questo Gesù insiste: «Lottate!». Ci vuole più forza ad accogliere di quanta ne serva a conquistare. Ci vuole più coraggio a tendere le mani vuote che a stringerle nel pugno della conquista.
È più difficile vivere da figli liberi che da schiavi religiosi. Più arduo aprire il cuore all’amore gratuito, che piegare la schiena per guadagnarselo.
La porta stretta è allora il passaggio dalla conquista all’accoglienza, dal possesso al dono, dalla paura al lasciarsi amare.