OMELIA XXVIII domenica TO. Anno C

Lc 17, 11-19
Per giungere a Gerusalemme – la città della pienezza, il luogo dell’incontro – Gesù ‘deve’ attraversare la Samaria e la Galilea: terre di confine, di lontananza, di inimicizia. Simboli di tutto ciò che è escluso, infedele, non appartenente.
L’amore divino non evita queste terre. Non salta la nostra ombra: la attraversa. È proprio la distanza da Lui il luogo dove può farsi vicino.
Sono le nostre perdite, le nostre zone smarrite, il punto preciso in cui può ritrovarci.
Gesù entra in un villaggio — la parte più oscura di me —
e «gli vennero incontro dieci lebbrosi» (Lc 17,12): le mie ferite, le mie parti malate, le zone dell’anima che vorrei non vedere. Quando Egli entra, il male gli si fa incontro: la miseria è attratta dalla misericordia, la notte sente il richiamo del giorno.
Ma accade qualcosa di sorprendente: Gesù non li guarisce. Dice soltanto: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (v. 14).
Secondo la Legge, i lebbrosi non potevano farlo: gli impuri non varcano la soglia del Tempio, il luogo dove Dio abita. Eppure, proprio qui, si rivela il cuore del Vangelo.
Gesù sembra dire: non temere. Non credere di essere così sporco da non poterti avvicinare. Cammina. Fidati. La via si aprirà mentre la percorri.
Così come sei — con la tua storia, la tua fragilità, le tue ombre e i tuoi errori — sei già immerso nella Vita. Non devi conquistare Dio: ne sei avvolto. Non devi migliorarti per meritare l’amore: devi solo accorgerti di essere amato.
«Mentre essi andavano furono purificati» (v. 14b). La guarigione non è un punto d’arrivo, ma un cammino. Accade lungo la strada, nel lento procedere dei giorni, nell’andare fedele anche quando non si vede nulla.
Non ci è chiesto di purificarci per poterci accostare a Dio, ma di imparare a restare in Dio anche nelle nostre ombre. Siamo già esseri divini, in cammino verso il compimento di ciò che da sempre siamo.
E di questo — del cammino stesso, della ferita che diventa via — non possiamo che dire: grazie.