OMELIA XXXIII domenica del Tempo Ordinario. Anno A

(Mt 25, 14-30)
«Sono un filo d’erba che ha sete, un nulla che attende di diventare il tutto di Dio. Oscurità che anela alla luce» (Michele Do).
Non siamo esseri decaduti, ma povertà in attesa di compimento, in ascesa verso il nostro vero Sé.
Ma la parabola ci ricorda che esiste il rischio di abdicare al compito di portare alla luce il Dio-dentro-di-noi, di starcene come esseri ‘malvagi e pigri’ (v. 26), in un atto di deresponsabilizzazione, attendendo tutto da una divinità sopra le nubi, interventista e miracolista.
Non abbiamo bisogno di un dio che ci salvi dall’esterno, come stampella alle nostre insufficienze o il supplente delle nostre assenze, ma piuttosto di diventare consapevoli della forza divina che ci abita, di farla emergere, trasformandoci in essa e così nel meglio che possiamo diventare, donne e uomini fioriti.
«Va’, la tua fede ti ha salvato» è l’invito che torna costantemente nel Vangelo di Gesù.
Dobbiamo credere, aver fede che il principio della vita è già dentro di noi, che tutto è già dato – al di là del nostro essere buoni o cattivi (cfr. Lc 6, 35; Mt 5, 48)- e che, lo ripeto, non c’è da attendersi nulla per il nostro compimento dall’esterno, ma solo aprirsi a questa luce che già riposa in noi e farla deflagrare.
Sì, l’unico nostro compito è forse quello di aiutare il nostro Dio – come ricorda Etty Hillesum – ad emergere dalla nostra oscurità e aiutarlo a non abbandonarci.